È tristemente interessante, mi pare, occuparci un attimo di quel macabro gioco semiotico in cui si è esercitato la settimana scorsa (avevo scritto questa rubrica subito dopo ma esce oggi perché ha atteso i suoi sette giorni di turno essendo stata la precedente in quel momento appena pubblicata) il Parlamento italiano appena riconfigurato dalle recenti elezioni politiche nelle sue due giornate iniziali, dedicate alla elezione a scrutinio segreto dei presidenti della Camera e del Senato. Il fatto resta comunque di attualità perché si è poi ripetuto nell'occasione delle Camere congiunte che ha espresso il presidente della Repubblica. Alla fine è andata tutte e tre le volte come sin dall'inizio andare sarebbe dovuta, ma ci sono stati passaggi, nelle prime votazioni per la presidenza del Senato, in cui quanto in un gruppo di schede era scritto costituiva - anche se non apparentemente - messaggio, vuoi interlocutorio vuoi ammonitorio vuoi ricattatorio. Probabilmente non sapremo mai esattamente quale intreccio politicamente dialogico si sia poi dietro le quinte svolto fra una e l'altra di queste ripetute votazioni, ma a me fin dal susseguirsi alternato delle schede «Andreotti», «Giulio Andreotti», «Andreotti Giulio» «Senatore Giulio Andreotti» e «G. Andreotti» è tornato subito in mente un linguaggio utile a identificare le particolari provenienze, di antica matrice democristiana, del voto stesso. Di quando cioé io ero un giovane redattore parlamentare che seguiva gli intrighi palesi e sotterranei dei partiti e dei gruppi presso l'Assemblea Regionale Siciliana, e anche questo era diventato in quell'aula un modo criptografico di comunicare.

Quando negli scrutini segreti sulle leggi c'era solo da dire «Sì» o «No» c'erano palline bianche e nere. Ma se si trattava di eleggere presidenti od assessori e occorreva infilare nell'urna, in un clima di generale diffidenza, dei nomi scritti su una scheda, allora venivano spartite, fra le componenti della parte sostenente un candidato, delle precise modalità diverse di redigere questa scheda senza comunque uscire dai termini del regolamento. Per garantirsi che nessuno sgarrasse dagli impegni presi i deputati di una componente scrivevano solo il cognome, quelli di un'altra lo facevano precedere dal nome, quelli d'una terza invece glielo facevano seguire, e poi c'era anche la possibilità di anteporre o premettere soltanto l'iniziale, o di aggiungere la qualifica «On.» o «On.le» o «Onorevole» per esteso. Così se qualche voto poi fosse mancato si sarebbe potuto controllare dall'interno di quale componente, a seconda di quanti ne mancavano, fosse provenuto il traditore (o i traditori). E quando fosse stato deciso, per determinati motivi, di mandare invece a vuoto un'elezione si impegnavano i singoli deputati regionali dello schieramento maggioritario a votare ognuno per se stesso; che era di fatto un modo di "firmare" la scheda segreta. Come mostrarla aperta, insomma, e questo avrebbe dovuto far considerare nullo lo scrutinio per violazione della segretezza. (Ma come si fa a provare che io ho votato non per me ma per te, e viceversa, senza ricorrere a una impossibile perizia calligrafica?).



Non è un bel ricordo che ho di queste cose risalenti agli anni '50/'60. Se nella fattispecie dell'attuale elezione del presidente del Senato ciò per la minoranza che tentava di diventare maggioranza e comunque non ci riuscì poteva essere semplice controllo; così come per la maggioranza stessa. Ma è invece più che evidente come quelle schede, non molte ma bastevoli, in cui c'era scritto solo «Marini», se non «Marino» o «Mariti», oppure l'inesatto «Marini Francesco», avessero il preciso scopo di diminuire il numero di voti validi della maggioranza per tenerlo al di sotto del quorum richiesto e far così fallire l'elezione, obbligando a ripetere il voto in giornata o nel giorno successivo. Nel caso di tal suo candidato aggiungere anche il nome di battesimo preciso (cioè «Franco») era infatti per l'area di maggioranza obbligatorio poiché lo stesso cognome lo porta pure un altro senatore che però, senza essere Andreotti, si chiama Giulio anche lui. Si trattava dunque - come dubitarne? - di malcontenti i quali solo dopo appagati sono addivenuti a votare correttamente; come risultato dall'ultimo scrutinio che ha fatto risultare non solo Marini eletto ma anche con tre voti in più di quelli che per vincere gli occorrevano. E, visti i numeri totali, indubbiamente provenienti per scrupolo protettivo da qualcuno della destra cui non piaceva Andreotti. A parte questo gesto qua, bella roba, no? E si può solo sospettare, senza però certezza alcuna, a chi questi negativi voti in maschera siano appartenuti. Dato che oltretutto essi esuberavano numericamente quelli di un solo gruppo di provenienza dei più piccoli. Che peraltro ufficialmente negavano.

Diverso il caso della presidenza della Camera, dove la maggioranza era comunque tale da non raggiungere i due terzi del plenum assembleare richiesto nelle prime tre votazioni, ma possedeva comunque, e anche oltrepassandola, quella maggioranza assoluta che diventava sufficiente nella quarta. Qui si è semplicemente verificato il caso solo diversivo - che mi compiaccio di aver personalmente previsto scrivendolo già una settimana prima in un blog - di quel centinaio di voti intestati, contro il candidato ufficiale Bertinotti poi comunque eletto, a D'Alema (pur suo compagno di schieramento). Che hanno costituito, come mostra la loro stessa cospicua quantità, non manifestazione di un dissenso interno o di una circoscritta, e sempre interna, simpatia nominativa di bandiera che ci sarà pure potuta essere (anche senza capacità e nemmeno volontà di cambiare il risultato finale, il che avrebbe prodotto esiti letali per lo stesso costituendo governo) quanto invece maligno ed occulto "regalo" fatto esprimere a parlamentari suoi dal cav. Berlusconi con lo scopo di crear quantomeno frastorno allo schieramento avversario comunque inevitabilmente vincente. Poco commendevole, ad ogni modo, anche questo episodio qui.

Atti del genere e anche dichiarazioni che li hanno accompagnati hanno purtroppo mostrato a tutti, attraverso le dirette televisive durate due giorni, un paesaggio un po' da kindergarten popolato da bambini dispettosi. Sono anche queste fra le concause di quel senso di rigetto verso la politica che le fa voltar le spalle da larghe fasce di cittadini le quali sempre più scetticamente la definiscono qualcosa di poco serio. E invece NON è così e questo è ingiusto e pericoloso: proprio la politica è invece la cosa più seria che ci sia, poiché è da essa e non da altro che dipende il progressivo benessere ovvero il rapido sfacelo di una comunità, ed è da essa che dipende lo stato dell'economia diffusa e che, abbiamolo ben presente anche questo, dipendono la pace o le guerre. Si tratta dunque di un giudizio errato, che va casomai sostituito da un altro: quello che giudichi semplicemente non all'altezza delle sue responsabilità, e delle capacità e del prestigio a ciò necessari, la classe politica di cui il nostro Paese dispone attualmente, in cui non appaiono più figure di statisti della qualità e livello di di quelle, parecchie, invece emergenti nella precedente. Sostituite da figure di semplici "manovratori". Eppure, in democrazia, la politica è proprio l'unica cosa le cui scelte e le cui sorti stanno per davvero in mano al popolo, composto da una massa di cittadini singoli, ognuno con l'arma periodica, se vuole e sa usarla, di una scheda. Purchè, naturalmente, disponga anch'esso di una maturità collettiva.

Viviamo in un Paese traballante e indebitato, coi conti pubblici scassati, le industrie in difficoltà, il precariato lavorativo che sta diventando regola, istruzione e sanità allo sbando, giustizia inceppata, continuamente rimproverato dall'Europa, spaccato politicamente in due dalle appena svoltesi elezioni, e la nostra classe politica si permette giochini del genere... Ma anche il diritto di lamentarcene viene abbastanza meno, se riflettiamo sul fatto che - complessivamente - ce la siamo voluta noi stessi; o almeno vi abbiamo più che largamente concorso. E che probabilmente c'è dunque anche bisogno di una generale autocritica di base.