Nei dizionari, alla voce «cultura» troviamo più o meno questa tripartizione: che essa consiste nell'insieme armonizzato delle cognizioni, delle esperienze e delle eleborazioni con cui un individuo forma la sua personalità intellettuale e spirituale; che essa può essere così denominata anche ove ristretta a particolarmente riguardare un determinato campo o settore specialistico; che può pure essere riferita all'insieme dei saperi, delle tradizioni, delle convinzioni e delle opere di una determinata collettività territoriale o collocata nel tempo. Ma se invece di consultare un dizionario linguistico ne consultiamo uno filosofico non troviamo più questa voce esaurita in un tronchetto di colonna e abbiamo invece da percorrere una serie di intere paginate. Perché non si tratta più soltanto di decodificare un termine d'uso, in quella sede, ma anche di, come dire, storicizzarlo.

Per il mondo greco-latino infatti essa corrispondeva all'intero realizzarsi dell'individuo possibile solo attraverso l'educazione, e aveva dunque una sostanza essenzialmente civica. Nel Medioevo essa invece si identifica in modo elitario e trascendente (le arti, la speculazione teoretica, la religiosità). Il Rinascimento la contrassegna come la sapienza nozionistica/creativa del condur vita dentro il mondo nel modo migliore possibile. Kant la fa coincidere con la libera capacità per l'individuo di scegliere le proprie destinazioni e quindi proprio come «fine ultimo» assegnato dalla natura al genere umano. Appartiene invece all'Illuminismo la destituzione d'ogni suo carattere aristocratico per affidarla interamente alla ragione comune come strumento di società. Antienclicopedisti ed elitari tornarono ad essere i romantici, mentre gli sviluppi scientifici indussero i positivisti ad orientarla soprattutto verso le aeree naturalistiche e matematiche. E dopo la fase dell'idealismo crociano per cui era cultura il possesso non dispersivo della Conoscenza essenziale da cui le altre diramavano, poi prevalendo invece sempre più una grande diversificazione della ricerca in una società fattasi massicciamente industriale, ecco che varie concezioni culturali si accavallano in una sorta di caos. Sì che le nuove condizioni storico-sociali finiscano col tecnicizzarle per comparti e renderle così, inevitabilmente, incomplete e parziali, assumendo così anche la cultura connotati utilitaristici. A cui abbisogni il venire addestrati. Eppure un valore concettuale unificante continua a occorrer sempre. O non è così? Riflettiamoci bene, se vogliamo evitare incomprensioni che possano essere troppo divisorie.

Si parla molto, oggi, scolasticamente e no, di "cultura generale". Ma a cosa propriamente corrisponde questo aggettivo "generale"? Alle cosiddette discipline umanistiche soltanto? O anche a una parte di quelle tecniche? Gli aspetti da dirimere sono ancora molti, e intanto la parola di cui è qui oggetto va assumendo anche valenze collettive poiché si parla per esempio - e ci accorgiamo di continuo che è così - dell'esistenza di «culture nazionali» o riferite a etnìe o religioni, o di una «cultura tecnologica», o di assimilazione di questo termine all'identi-kit di questa o quella "civiltà". Occidentale, per dire, o Islamica. Per gli antropologhi, cita per esempio Abbagnano, «un certo modo di cucinare un cibo è un prodotto culturale non meno di una sonata di Beethoven». Insomma si può essere o essere considerati "colti" in vari modi, oggi, che vanno dal possesso di un complesso coordinamento di nozioni variamente estratte alla specificità, per dire, di un anatomopatologo, di un astrofisico o di un botanico, dal cui sapere e dai cui studi deriviamo benefici infiniti ma che però possono benissimo non frequentare intanto anche romanzi e poesie o testi di discipline lontane dai loro interessi e cui non si può dunque chiedere nulla di Pericle, Matisse, Nietsche, Dostojewski o Hernàn Cortèz. E si può anche parlare, a questa così espansa luce interpretativa, di una cultura hippy, di una cultura beat, perfino di una cultura, e come no, fascista.

E' possibile tuttavia trovare qualche chiave aprisentiero in questo nostro confusionato e postmoderno mondo andando per esempio a rileggere passaggi di uno di quei densi e fulminanti articoli che scriveva PierPaolo Pasolini sulla prima pagina del «Corriere della Sera» una trentina d'anni fa. Questo che citerò adesso è del 24 giugno 1974 e comincia proprio così: «Che cos'è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti, ecc.: cioè la cultura dell'intelligentja. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante né di quella dominata, cioè quella popolare». Di questo articolo sintetizzo solo il nòcciolo perché lo trovo assolutamente congruo a descrivere in materia come quegli stessi precisi contesti da lui evidenziati restino pertinentissimi a un genere di analisi che lui intuì per primo e che noi potremmo con facilità applicare al Paese che attualmente abitiamo e in cui conduciamo vita. Nòcciolo che è il seguente: la cultura si esprime soprattutto attraverso i comportamenti e questi comportamenti, nell'attualità, tendono a miscelarsi, tendono all'omologazione. Non si parlava ancora di global, quando Pasolini scriveva questo, anche se lui era già certamente un no-global pur non esistendo ancora il termine. Ma la parola «omologazione», che poi diventò un suo concetto famoso e recepito, è in questo scritto che per la prima volta l'ha con questo particolare significato usata: un'omologazione interclassista delle abitudini e delle menti; che appunto diventa un dato culturale quasi omogeneo ma teso, come si trattasse di una sorta di legge di gravità, verso il basso. Pure dalle classi superiori, cioè: l'Italia ha quasi sempre avuto, in disparità p. es. da Francia o Germania, solo una pseudo-borghesia dai labilissimi confini in cui aspirava infatti ad acquisir cittadinanza finendo col largamente riuscirsi pure il proletariato operaio, mentre operai diventavano a loro volta, inurbandosi, i contadini.

Ma chi ha avuto il potere di condurre a questo? Un Potere anonimo perché divenuto meticcio, potremmo rispondergli a distanza di tutto questo tempo. Un potere che ne miscela diversi e che fonde infatti economia e politica estendendosi a comprendere fino artisti e cantautori. Un potere che ha oggi come canali il cinema e la televisione, gli stilisti di moda e la pubblicità, l'editoria che dalle librerie si è spostata in edicola, l'informalità dettata dal computer, i gadgets che sono rappresentanza e caricatura del nostro modo di vivere, la stimolazione dei fumetti non più per bambini, la satira sboccata e gli amalgami linguistici, la trasgressione che infiltra l'abbigliamento e la sessualità, le pigre comodità del fast food. Per quanto potrei continuare? Ci sono comportamenti che rendono, a differenza del passato quando bastava un'occhiata classificatoria, adesso indistinguibili, per la strada o al bar, un architetto e un commesso, uno studente e un operaio, una insegnante e la sua colf. Un presidente del Consiglio dei ministri scandalizza pochissimi se dice «coglioni» davanti alle telecamere, una volta che da tempo intercalano il loro dire con la parola «cazzo» sia austeri giureconsulti che signore bene e le loro figlie ragazzine.

Non è mica immoralità, però: è moda, è trend. Non andiamo forse in giro coi jeans tutti quanti? La cravatta non la portano ancora solo quattro gatti? Il topless invalso al mare non giustifica ad abundantiam quelle che a un cocktail o in discoteca null'altro indossano sotto uno scollatissimo giacchino o canotta? A selezionare i vocaboli per il nostro quotidiano uso ci pensano i giornali con la gergalità e col loro bisogno di parole corte per fare titoli sintetici all'inglese; per essere "in" leggiamo gli stessi libri e libracci, vediamo gli stessi film e filmacci; le pietanze sono cucinate in serie per sfornarle in pochi minuti su ogni tipo di tavola. Eccetera. Nei primi anni '70 anni solo l'occhio acuto di Pasolini poteva dedurre da ancor piccoli segnali la irreversibilità di un processo che culturale sotto il profilo semantico restava pur sempre ma che alla cultura stava cambiando i connotati, trasformando in sperimentale quella d'élite ed appiattendo come una panella quella di massa. Salvo a creare incroci anche dei più bizzarri. Quello di una falsa tolleranza, per dirne uno. Falsa perché serve a distrarre da altro che dietro alle quinte resta fatto di imperterrito acciaio. O quello, non meno strumentale, di una instillata «ideologìa edonistica» (prelevo un altro termine usato da Pasolini in quella stessa occasione) che serve a depotenziare come ruolo il cittadino, trasformandolo in consumatore; ma questo lo aveva già sottolineato tempo prima Adorno come passaggio imposto da ruolo attivo a ruolo succubo pur facendogli persuasivamente credere d'essere sempre lui a scegliere cosa dover comprare. Ideologìa edonista più pulsione imitativa ed ecco qua un'altra diffusissima cultura, quella apputo consumistica.

Due rubriche fa avevo concluso il mio scrivere di fenomeni Web incitando alla cultura come bisogno e risorsa indispensabile per poter selezionare quel che nuotando incontriamo. Poi mi sono venuti dei dubbi fisionomici, se si può dir così, ma anche di contenuto su quella parola che avevo speso. E questo spiega perché alla sua analisi ho dedicato adesso per intero questa rubrica qui. La cultura non è uno status, non è un calepino standard depositato nel cervello, la cultura si può paragonare soltanto a una fornitissima cassetta degli attrezzi. Di cui dotare il nostro spirito, la nostra ratio, il nostro bagaglio di intenzioni. Bisogna sapere, ragazzi, di cosa stiamo parlando o no?