Sappiamo cos'è la bulimìa. Una spinta interiore, patologica o anche solo psicologica, a ingozzarsi di cibo al di sopra delle proprie necessità. Intasando le arterie di colesterolo, fottendosi il fegato, corteggiando il diabete. Come chiamarla quando questa spinta è invece esteriore, viene da fuori? Occorre, penso, ricorrere a terminologia da ricercare in una sede non più specificamente clinica ma giustificata per via analogica. Io sarei con molta fermezza per un bel termine che non consenta equivoci, come "istigazione". Ecco: istigare qualcuno a qualcosa ha un sapore preciso: non è come "indurre", "persuadere", "render convinto"; contiene un ingrediente di tipo proprio obbligante, prevaricatorio, da percepire come fondato su qualcosa di interessato, se non addirittura di malvagio. E' un termine giuridico che non si usa mai in positivo: istigare alla carità? istigare a mantenersi onesti e sani? a prendersi un meritato riposo dopo una fatica? è un'accezione proprio lessicalmente impraticabile, andiamo. Istigazione evoca più ricatto che còccole. E' nel codice penale che con maggior frequenza la troviamo: istigazione al suicidio, o alla prostituzione, istigazione a delinquere… Quanto al dizionario, la collega a modalità subdole ed a scopi quando non illeciti almeno fortemente dannosi. Ok: istigazione alla bulimìa, allora. E' di questo che si tratta.
Chi mai ci incita, pressantemente, interessatamente, a stramangiare? Ma se persino nella pubblicità prevalgono offerte dietetiche e improntate a fitness! La bulimìa di cui stiamo parlando è un'altra: certi concetti infatti si possono tranquillamente traslare senza perdere una briciola di validità. Cosa ve ne pare di una statistica (fonte California University) che coglie ogni cittadino americano seduto davanti a un televisore mediamente per 4 ore e un quarto al dì? Il che significa dedicare a Nostra Signora delle Antenne una dozzina d'anni della nostra attuale vita media (che è di 75), e questo solo se abbiamo l'ottimismo di escludere da tale calcolo statistico l'arco che va dai 0 ai 5 anni d'età (il che dovremmo saper non essere vero poiché abbiamo nipoti di 3 che a scuola ancora non vanno però già vivono di Pokèmon e sghignazzano quotidianamente sui Simpson. Possibilmente assumendo in contemporanea il proprio pasto). Non è, francamente, troppo? Non è, francamente, pericoloso? Non merita anche questo un segnalino di allarme come quelli che da un po' di tempo si dànno a chi fuma assai, scrivendoglielo perfino sul pacchetto stesso di sigarette?
Già negli anni Sessanta era stato Theodor Adorno a rassicurare chi temeva si potessero riappesantire gli orari di lavoro: "Un congruo tempo libero diverrà sempre più strettamente obbligatorio, posto che è nel tempo libero che i cittadini lavoratori si trasformano in cittadini consumatori". Severa critica del cosiddetto "capitalismo avanzato", e anche del ruolo subalternamente manipolatorio assunto in esso dai mass media perché un'omologata attenzione culturale producesse la restituzione, attraverso impieghi futili, di una bella fetta della mercede riscossa, era del resto una caratteristica di quella Frankfurter Schule di cui egli era esponente. Gli anni '60 del Novecento sono lontanucci ormai ed è da un po' di tempo che siamo negli anni Duemila. I quali confermano e sanzionano come la progressiva bulimìa cui siamo istigati tocca ormai il top proprio nel settore della comunicazione.
Dovremmo dedicare un attimo di concentrazione alla linea adottata dai media stampati per cercare di non farsi sopraffare da quelli audiovisivi. Il prodotto giornalistico di edicola è in sempre maggiore frenesia di offerta, aumenta pagine, moltiplica supplementi, duplica o triplica le copertine per ospitare più messaggi, si marsupia in cellofanatura per farsi vettore di fascicolazioni aggiunte sia pure di messaggistica pubblicitaria. Ma questa era una prima fase, la seconda è stata il farsi portatrice di multimedialità: la stampa ha manifestato a voce alta sfiducia in se stessa quando si è fatta latrice non solo di gadget ma anche di prodotti mediatici inizialmente in videocasasetta, ora in CD-Rom e tra poco in DVD. Se compriamo un capo di abbigliamento lo indossiamo, se compriamo una moto la usiamo, se compriamo un surgelato lo mangiamo. Ma noi non siamo (o meglio, la maggioranza di noi non è) più in grado non si dice di metabolizzare e digerire ma neanche di leggere tutta la roba che l'apparato mediatico universale ci rovescia quotidianamente sopra. Ecco perché poi si resta ad occhi annichilitamente sbarrati, provando quasi il piacere perverso della passività, davanti alla tv lasciando che sia lei a mangiarci.
Da cosa è stato provocato questo tema, per la rubrica di questa settimana? Dal fatto che questa settimana un quotidiano italiano ha cominciato ad abbinare (e lo farà per un anno) al suo numero del mercoledì un importante e ponderoso pezzo della letteratura mondiale dell'ultimo secolo. Intendiamoci, è certamente interessante questo ritorno a un prodotto non elettronico come quello di un libro ben rilegato ma resta il fatto che si tratta sempre di un abbinamento-stampella, di un giornale cioè che non si fida più delle proprie sole gambe e che fra un anno potrebbe anche accompagnarsi in edicola non più a un volume ma a un set di posate da tavola. Sarà sempre un fenomeno di istigazione bulimica a comprare più carta, ma (e non prospetto paradossi) un eccesso di comunicazione finisce con l'essere autocancellante, troppa accavallata informazione eguale a niente informazione. Si leggono &endash; finisce così &endash; solo i titoli. Quelle che dunque occorre insegnare (re-insegnare) sono le capacità selettive e le vie d'uscita dall'acriticità. L'Università dovrebbe veder questo come un suo compito porimario. Poiché anche solo un'occhiata intorno ci mostra che i danni già vastamente accertati da riparare sono culturali, sociali e &endash; per quel che vale &endash; politici.
Occorre insomma davvero cercare di accorgersi che accadono cose nel mondo di cui (e proprio nel momento di massimo potenziale - e di massimo ingorgo - mediatico mai raggiunto e in cui ingoiamo messaggi multimediali senza praticamente soluzione di continuità) continuiamo a non sapere nulla, e anzi, in qualche caso, anche meno di prima. Di solito la bulimia fa ingrassare. Ma quella mediatica, guarda un po', fa invece dimagrire.
E se poi esplori un attimo le sovraffollate confezioni comunicative con le quali ti assediano trovi &endash; faccio un esempio - pure di che arrabbiarti. Da qualche settimana un noto magazine si abbina con un CD seriale promesso contenere tutta la produzione poetica mondiale che conta dall'invenzione della scrittura in qua. Stavolta c'è la lettera N e ci trovi, per dire, e magari giustamente, l'opera di Ada Negri, per lo più conosciuta nelle crestomazie ginnasiali, mentre brilla invece l'incredibile assenza totale di un monumento come il Nobel Pablo Neruda. Qualcuno ha provato a dirmi "Vedrai che lo trovi nel prossimo dove ci sarà la R, perché Neruda era pseudonimo e lui si chiamava Reyes". Ma io non ci credo e sarebbe comunque un errore grave e incommettibile come, analogamente, far cercare Alberto Moravia sotto Pincherle. Quando fanno le cose le facciano almeno bene.
In comunicazione la bulimìa fa dimagrire
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- Scritto da Etrio Fidora
- Categoria: Secolo postmoderno