Questa rubrica l'ho scritta molti giorni fa, ossia subito dopo aver visto «Il Caimano», ultimo film di Nanni Moretti uscito. Per diverso giudizio si possa dare dell'una o dell'altra delle sue opere precedenti, una cosa esse hanno in comune: che tutte, ma proprio tutte, riescono comunque a toccarci un nervo scoperto. E questa, che ha fatto comparsa in piena campagna elettorale ma che è stata lentamente sceneggiata e girata lungo un anno e mezzo, non ha cambiato certo il risultato delle elezioni perché in qualunque modo uno spettatore la pensasse altro non avrà fatto che meglio convincersene. Essendo essa, emblematicamente e in forma comica, rappresentazione efficacissima e parallela sia della diffusa angoscia per la destabilizzata presente precarietà della vita che si cerca di rimediare, più spesso invano, sia dell'altrettanto diffusa aspirazione a forme di potere che ce ne distolgano non risolvendola ma aiutandoci a considerarla come "naturale" e fornendole anestetica supplenza: secondo un'invalsa inclinazione che si potrebbe definire semplicisticamente cinica ma meglio si connota come una vera e propria "inversione di moralità".

Un'altra moralità, cioè, radicatamante speculare a quella che i filosofi non pragmatici chiamano universale. La insegnava Macchiavelli al suo Principe perché fosse volta a volta volpe o leone, la praticava Bonaparte squilibrando i due piatti di quella nota simbolica bilancia col filo della spada, la adottò passo dopo passo Mussolini sino a littorio e disastroso totalitarsmo. Erano un'umanità superiore gli ariani ed erano una categoria inferiore gli ebrei, così come c'è oggi chi dichiara essere semplici e preferibilmente inautonome "categorie altre" le donne, oppure la magistratura (salvo rivestire ciò di disponibilità ipocritamente retoriche). Si è fatto molto, in questi anni, là dove risiedeva potere decisionale perché questa moralità inversa prevalesse, perché cioè nella testa della gente molto o almeno qualcosa cambiasse, perché pian piano si operasse tutta una serie di sostituzioni di valori. E' questo che è avvenuto, è questo che al film di Moretti offre materia ed esso pone in luce.

E così assistiamo, su due piani abbinati, alla storia di un produttore cinematografico sfortunato ma anche abbastanza imbranato cui si sta sfasciando, mentre rincorre se stesso e i suoi progetti, la famiglia (la moglie gli si scosta, i figlioli cadono in confusione); diventa un precario in ogni senso, e del precariato in sé, col suo implacabile pestar acqua nel mortaio, costituisce anzi efficacissima e complessiva icona. E assistiamo, assieme a questa, all'intercalata vicenda di un Paperone politicizzato il quale, a differenza però del personaggio disneyano che conservava religiosamente la sua sudatissima prima moneta da un dollaro, aveva nella sorgente del suo passato una grandissima valigiata di soldi piovutagli inaspettatamente da un metaforico cielo. E costruisce palazzi, si fa tre televisioni, entra nell'editoria, nelle assicurazioni, nella grande distribuzione, ha non si sa quante ville, barca, elicottero ed aereoplano, vicino al vertice di graduatoria fra i più patrimonialmente e in liquidità più ricchi del mondo; ed ha anche, essendo abbastanza truffaldo, una quantità di pericolose grane con la Guardia di Finanza e con la magistratura. Allora scende in politica, trasforma la sua capillare struttura pubblicitaria in partito, costruisce di sè un ritratto che gli fa vincere le elezioni e, divenuto capo del governo, può così anche legiferare in modo da proteggersi.

Ma fa anche qualcosa di più: infonde i germi di una passività mentale generalizzabile, la cui pianta continua ogni giorno ad annaffiare. E' sintomatico il passaggio del film in cui questo suo co-protagonista espone la propria filosofia televisiva: basta con i programmi che staccano alle undici di sera e riprendono alle sette di mattina, e basta con le cose presuntamente noiose; i programmi devono essere ininterrotti e devono essere intrattenitori e distensivi, devono dispensare còccole e sogni. Se leggiamo in trasparenza, ne emerge nitida la volontà di distogliere dalla realtà e di sostituire bisogni futili a quelli più importanti. Cosicchè si abbassi la soglia delle censure etiche lasciando mano più libera ai livelli alti per una progettualità di tipo finanziario e speculativo, che spenda verso il basso solo demagogìa. E possibilmente con teatralità.

Che si tratti di un personaggio-simbolo è sottolineato dagli attori, tre e somaticamente molto diversi fra loro, che si alternano ad interpretarlo mentre il premier italiano tuttora in bufera postelettorale compare solo in un breve videobrano documentario. Unico è invece l'interprete dell'altro personaggio-chiave, nel quale confluiscono tutte le sfaccettature del precariato che caratterizza oggi i ceti dal medio al basso sul piano del lavoro come su quello degli affetti, rendendoli velleitari ed infelici, nevrotizzandoli e abulizzandoli insieme. Ne scaturirà un finale inaspettato e tragico, e paradossale solo fino a un certo punto, in cui il Caimano uscirà pesantemente sconfitto in Tribunale ma vincente in piazza. Per lui una severa sentenza di condanna, ma per i suoi giudici pomodorate e bottiglie Molotov. Apologo comunque, più che - come ha scritto Marcello Sorgi su «La Stampa» - profezia. O almeno ritengo preferibile considerarlo così. Le urne che si sono appena aperte in Italia con così ambiguo esito non si può dire ci consolino molto, infatti, poiché il futuro preluso dal quadro italiano che mostrano non è proprio rosa né esentato da imprevisti capaci di involuzione o sbandi e nuove conflittualità.