Quando si fa un titolo di giornale una volta si contavano le battute ed ora è il computer che le conta per noi. In una riga ce ne vanno tante quant'è la giustezza di colonne predisposta e neanche una di più. Qualche volta è facile e qualche volta sono acrobazie e bisogna provare più d'una variante. Scrivere ONU invece di Nazioni Unite fa risparmiare ben dieci battute, mica è uno scherzo, e ormai prof è diventato sostantivo autonomo, singolare e plurale, maschile e femminile, senza neanche il punto finale perché non è più l'abbreviazione della parola professore nelle sue quattro declinazioni. Questi citati, però, sono casi ordinari e lasciano intatto un significato che resta comprensibile per tutti.
Occupiamoci invece di qualcosa di più singolare e che proprio in questi giorni torna spesso sotto gli occhi in quanto riguarda questione molto attuale. E' il caso PACS. Che cosa è questo PACS, che si può peraltro usare anche al plurale?
E' venuta di fresco alla ribalta la questione del matrimonio come istituto giuridicamente fondato e della ormai parallelamente invalsa prassi della semplice convivenza di fatto. Si tratta in entrambi i casi di coppie legate da rapporto affettivo spontaneamente istaurato, ma nel secondo esse dànno luogo a coabitazione, comunanza anche economica di mènage, condivisione di lenzuolo a due piazze senza che tuttociò sia stato anagraficamente convalidato da stipula di stato civile né davanti a un sindaco o suo delegato a tracollarsi la fascia tricolore, né davanti a un sacerdote indossante paramenti e tiara. Rappresenta soltanto la libera e reciproca decisione, peraltro affatto illegale, di "stare insieme". E questo status informale può durare anche un'intera serenissima vita, così come può invece essere anche corrusco e sfociare poi in divorzio un tradizionale coniugio ammantato di tutti i crismi legislativi e religiosi. Nei titoli dei giornali, intanto, quelle che prima si chiamavano «coppie di fatto» sono diventate PACS, e stavolta le battute risparmiate sono in questo modo undici.
Qual è la questione, allora, se titolare un servizio su questa materia ne risulta così facilitato? Che, per restare all'esempio di prima, la nozione di ONU e il suo significato ci sono universalmente familiari da prima della metà del Novecento, mentre chiamare PACS le coppie di fatto è roba cominciata solo alcune settimane fa e ancora i più si chiedono se si tratti di qualche strana nuova organizzazione (dicendola a voce suona esattamente come PAX, che è tutta un'altra cosa) la quale in qualche modo - ma quale? - abbia, dati i contesti in cui viene usata, a che fare con la vita coniugale e la famiglia. E in un certo senso così è, ma costituendone alternativa, dal momento che PACS altro non è che l'acronimo di PAtto Civile di Solidarietà. Si è semplicemente recepito il modo in cui viene chiamata la stipula a due di una convivenza di fatto già da qualche tempo in Francia. Solo che così, usando di corsa e solo per comodità di estensore una sigla al momento ancora abbastanza oscura, al lettore frettoloso non si fa mica capir bene di cosa in quell'articolo così titolato si stia trattando. Eppure anche da noi le coppie di fatto sono ormai diffuse come il prezzemolo.
Tuttociò è molto delicato e a molti è anche insorto il sospetto che tale inopinato neologismo serva appositamente a confondere, a non contrapporre in modo crudo, scostando così anche lettura, i due concetti di unione legale e unione di fatto. Nozione quest'ultima, se esplicitata, ben chiara invece a chiunque. La prima volta che ho visto scritto PACS nel titolo d'apertura di un quotidiano io stesso mi son detto «Bòh?» e ho subito affidato questa sigla, digitandola nella sua finestra, al motore di ricerca che è sempre a portata d'immediato clic nel mio computer. Così dal Web ho subito avuto in vista tutto il materiale francese che c'è in merito, politico e legislativo, sul Pacte de Civile Solidarité. Ma hanno l'abitudine di regolarsi così proprio tutti i componenti di tutti i target cui i quotidiani si rivolgono? Fatto è che è in corso contro le unioni di fatto un attacco da parte vaticana, mentre da parte laica si sta elaborando proprio uno strumento legislativo, modellato su esempio appunto francese, che tuteli anche i cittadini dei due sessi uniti di fatto, da un certo ragionevole periodo, in materia di diritti/doveri reciproci e pubblici relativi a sostentamento, Immobile comunemente abitato, reversibilità di previdenza, assistenza sanitaria, eredità, eccetera. E forse si preferisce evitare che su ciò dilaghino fin d'ora troppi scontri d'opinione.
Ma stiamo parlando di comunicazione, no? E non essendo chiari si può solo comunicare male. Sta latendo e montando qualcosa che merita invece gran luce di riflettori. Usando del grande ascolto che il precedente Pontefice, ecumenico e pacifista, aveva universalmente come non mai ottenuto alla voce della Chiesa, quello attuale ha appena ammonito i cittadini a non votare per politici favorevoli all'aborto (oggi legge dello Stato, e così sotto sua implicita minaccia di promozione di referendum abrogativo), ai quali ha pure annunciato sarà precluso di ricevere la Comunione (preludio di scomunica?) e sta testualmente dichiarando in TV - giunge direttamente alle mie orecchie proprio mentre nella stanza accanto scrivo queste righe - che «è da Dio e non dallo Stato che gli uomini ricevono i propri diritti naturali». C'è tutta una politica che si sta insomma abbastanza rapidamente dispiegando e su di essa si può essere legittimamente essere, perché è giusto così, onestamente d'accordo oppure no; però è proprio compito dei giornali guadagnerle il primo piano invece di lasciarla defilata, perché in modo troppo rilevante interessa proprio tutti, siano cattolici o siano laici.
Gli espedienti di lingua smettono in queste circostanze d'essere solo comodità tipografica e possono assumere pure altre valenze passibili d'essere negative e anche parecchio. E questo anche se va tenuto necessariamente conto delle forme semiotiche via via invalenti. I dizionari temporalmente seguono e non precedono l'affermarsi nell'uso di una lessicalità particolare. Magari dando per un certo periodo buone sia la modalità inerzialmente corrente che quella razionalmente sopravveniente. La mia folta collezione di vocabolari italiani risale alla prima metà dell'Ottocento e di queste modifiche e prese d'atto nel tempo avvenute ne ho potute controllare tante. Ci arriveranno anche edizioni generazionalmente future di quelli chesono negli scaffali adesso. La lingua, tutte le lingue, sono soggetti vivi, non mummificati: nascono, mutano e muoiono. Sono costruite con la plastilina e non con il bronzo o l'acciaio e sono persino soddisfacentemente personalizzabili, come insegnano in modo eccellente Gadda, Arbasino, D'Arrigo o Camilleri. E cosa faremo, fra qualche anno o decennio, di tutte le sigle, abbreviazioni, contrazioni ed elisioni oggi imposte da oralità, manuali, display, mail, chat e sms, ormai di così larga e quasi obbligata progressiva acquisizione? Neologismi e ibridismi corrono a questo punto con l'acceleratore a tavoletta, ed è tutto pane per i denti dei compilatori di dizionari. Professione affascinante, ma adesso finita col comportare anche fatiche di tipo nuovo non invidiabili. Io cerco almeno di navigarci dentro con la bussola in mano, costantemente tenuta a portata d'occhio.