Una volta all'anno si riaffacciano a Palermo da tutto il mondo i cortometraggi. E' l'occasione, appena ripetutasi, del Film Festival tenacemente organizzato da Sergio Ruffino. Buiovestito e scamiciato, capelli al vento, baffi e pizzo, sembra il Corsaro Nero. E cose corsare le deve fare davvero per portare in proiezione ai Cantieri Culturali della Zisa le pellicole che gli premono, Un'organizzazione cioè che è assolutamente inutile predisporre, come si dovrebbe, mesi e mesi prima poiché poi sempre tutto avviene all'ultimo momento. Accettazioni, sponsor, finanziamenti, staff, arredo, ospiti, arrivo, talvolta miracolosamente sul filo di lana, delle "pizze". Anche se oggi, per i trasferimenti e la messa su schermo, molto aiuta il DVD. ll cortometraggio ha una sua lingua e un modo suo di comunicare, che non è lo stesso dei film che durano un'ora e mezza o due, qualche volta anche tre. Ed estrarrò qui qualche appunto dal seminario d'apertura che anche quest'anno, nell'occasione, sono stato invitato a tenere.



Il mondo del "corto" ha due aspetti diversi, mi accorgo sempre più, anche partecipando spesso all'estiva manifestazione analoga che si svolge a Trieste. Che per lo più sono distinti ma coabitano pure, talvolta, in una medesima fattura. Uno è poetico/narrativo, l'altro potremmo chiamarlo sperimentale. Il prodotto contiene comunque sempre una "storia". Possiamo definirla così dato che ci troviamo in ogni modo davanti a una cadenza temporale. Ma nel primo caso essa può presentarsi sequenzialmente svolta proprio come in un racconto o nella presentazione di una tranche de vie. Oppure invece risolversi, si potrebbe dire, per strofe - liriche o drammatiche - in consecuzione di immagini ma non sempre anche di tempi (tecnicamente, lo sapete, si chiama flash-back) nelle quali il visual anche astratto o simbolico è l'elemento predominante. E' appunto la metafora il pennello con cui dipingono i poeti, no?

Nel secondo caso quel che conta sono i materiali usati. Che possono essere membra e facce umane, e sfondi, ma anche senza meno soltanto e però con forte presenza oggettistici. O costruiti servendosi di varia materia prima. E intervengono anche i modi di inquadrare e una fantasiosità grammaticale di montaggio. Insomma quelli che vanno sotto il nome di "effetti". Verrebbe da chiamarli trucchi, se non fossero vere e proprie invenzioni. Intellettuali e tecniche. Il che consiste alla fine sempre in una personalizzazione linguistica. Che poi è la valenza essenziale di tutto. In entrambi comunque questi casi s'è potuta anche quest'anno notare, e forse accentuata, una tendenza che non riguarda anche soltanto il cinema a lungometraggio ma pure il fumetto e perfino certa letteratura. Non parleremo nella fattispecie di horror o di thriller, ma è riscontrabile con grande facilità una grande predisposizione a comunque turbare lo spettatore. L'ambiguo, l'emozionante perdersi, talvolta il macabro addirittura, han tasso di frequenza alto in questi soggetti che vengono sceneggiati e poi tradotti in riprese. Senza che tuttavia vengano a mancare anche gli spunti ironici o solo divertenti, come nella storia d'amore fra due lattine d'acqua tonica, molto romanticamente iniziata e conclusasi con un'esplosiva tracimazione bollicinosa. Oppure in una serie di gag fra personaggi modellati con le plastiline colorate.

Ho fatto ad ogni modo parte di una giurìa che è, credo eccezionalmente, stata capace di trovare l'unanimità in meno di mezz'ora sull'assegnazione del premio maggiore. Scartando i sadismi visivi, i "colpi di scena" finali, i montaggi dissolventi pur suggestivi fra immagini fisse, i simbolismi più accentuati, abbiamo deciso di assegnare il premio a un bianco e nero ben modellante non solo le rughe ma anche il suo interiore di una vecchia siciliana di modesto ceppo e non attrice, che narra quel che ricorda di sé giovane. Com'era bello suo marito, come si cucinava e che cosa, i discorsi di Mussolini e la guerra; e tant'altro. Con rara e documentante efficacia e con grande e spontanea comunicatività d'espressione. Senza che la sequenza dei primi piani e del muover di mani con solo qualche breve inserto potesse tuttavia mai stancare. Non occorre, come si vede, inventare chissà che trame o menar gomitate nello stomaco perchè lo spettatore ne tragga coinvolgimento.

Due parole finali sui Cantieri Culturali della Zisa. Che pena quel chilometro e passa di viali costeggiati fra erbacce dai capannoni dalle finestrature orbe e dai tetti sfondati dell'ex Aeronautica Sicula... In cui solo poche isole ripristinate murariamente e negli interni galleggiano qua e là: gli istituti «Goethe» e «Gramsci», la scuola di teatro «Teatès» di Michele Perriera, il cosiddetto «Spazio Ducrot». Ma che cosa ci vorrebbe perché Comune, Provincia, Regione, facessero uno sforzo di restauro, agibilità e patrocinio per quell'immensa estensione una volta fabbrica operosa ora affidata a un pugno di schiffarati guardiani sì che fosse resa disponibile luogo a iniziative plurime e continue di cui non manca intenzione (ma che solo intenzionali così restano) le quali la rendessero davvero la cittadella culturale internazionale di quest'ex capitale mediterranea?