Tremendo, quasi da incubo, è stato in questa strana estate ormai agli sgoccioli il cartellone delle sale cinematografiche. Non è il primo anno che è così, però è un crescendo. Parliamone, anche se forzatamente lo farò con lacunosa sommarietà riguardo ai precedenti; tanto però comprensibile, questa, da rendere persino superfluo lo scusarsene. Pure il film muto, per la verità, sapeva fare paura, Nosferatu e il dottor Caligari sono rispettivamente del 1922 e del '20, ma gli spettatori si erano spaventati rovesciando le sedie e fuggendo già circa un quarto di secolo prima quando, allo spettacolo inaugurale della machine cinématographique inventata dai fratelli Lumière («L'arrivée du trein dans la Gare de Lyon») quella locomotiva fumante sbucata dal fondo e precipitatasi in avanti sino a riempire lo schermo sembrò minacciare di travolgerli. Il brivido s'era dunque presentato a impregnare pellicola già fin dal suggello della sua nascita, quando Murnau da regista doveva ancora pensarsela e l'espressionismo tedesco non aveva ancora prestato al cinema l'orrore pittorico di Munch. La pietra miliare del bianconero sonoro reca invece scolpita al suo centro l'effige di Boris Karloff stravolta dal trucco che ne faceva il mostro di Frankenstein. (Ma altri attori come Lon Chaney e Christopher Lee restarono a lungo sugli schermi come specialisti di orroristici ruoli). Il divieto ai minori di anni 18 riguardava allora soltanto il primo affacciarsi da quel proiettore di nudità femminili mentre a tenere i bambini col cuore in gola pareva non ci fosse niente di male, anzi si supponeva come divertente poiché lo avevano fatto, ma guarda, pure Perrault e i Grimm. E infatti un sondaggio ha dimostrato come una delle manifestazioni di terrore maggiormente incidente, al tempo, sul pubblico infantile cui la fiaba era soprattutto destinata, e che poi se la sognava di notte, fosse stata l'orrenda stregaccia in cui s'era trasformata la malvagia regina Crimilde nello strafamoso e tuttora vegeto «Biancaneve» di Disney. Eppure, era solo disegnata. Paragoni fatti, si può misurare il callo ai bimbi di due generazioni dopo cresciuto e ispessitosi fino a resistere al più pauroso dei brividori possibili col successo presso di loro della serie di «Nightmare», l'assassino onirico dalle lunghissime unghie ricurve affilate come rasoi. E sere fa, neanche tanto tardi, un canale tv trasmetteva senza il bollino rosso di tutela un film americano in cui un adolescente decapita un compagno di scuola con una sega rotante facendogli balzellare la testa giù per le scale mentre un gattino bianco mangia un occhio scerpato a sua madre, già da lui sgozzata prima. Il che non è più neanche horror, è porno dei peggiori. Evoluzione, se si può chiamarla così, di un genere...



E' che l'attuale nostra comunità è stata spintonata - dalla televisione soprattutto, che lo schermo ce l'ha portato dentro casa senza più bisogno di far la fila al botteghino - ad abituarsi a tutto, scendendo livelli di gradino in gradino. Il che non toglie ci sia stato, e ancora adesso di rado sopravvenga, qualche film di livello maggiore anche in quest'àmbito, come «Shark» di Spielberg, o il primo, ma solo quello, della serie «Alien», o il più recente rifacimento, dal capolavoro wellesiano, della «Guerra dei mondi» (dello stesso autore di «Lo Squalo» peraltro, ma con messaggio in certo modo invertito: non è l'uomo che vince, stavolta, ma altri per lui). Nessun ragazzino si impressiona più a veder scorrere del sangue a torrenti, mitridatizzato in questo anche dai fumetti dove ai «Sob», «Gulp», «Gasp» «Crash», «Bang» abituali si è recentemente aggiunto (Dylan Dog) anche «Szòck», che sarebbe quel lettering tradotto da fonìa che accompagna il tagliar gola o affondarsi ventrale di una lama di coltello o d'una mezzaluna d'ascia. E sono fonti di callo morale da visual anche i sempre più frequenti tappeti di cadaveri smembrati e sanguinolenti che ci offrono, in giro per il mondo, gli stessi telegiornali. Questo però non è cinema, è attualità, e il cinema si è messo di buzzo buono per superarla. Che quella susciti indignazione e rabbia e questo sia invece semplice entertainment non toglie che l'effetto d'assuefazione lavori in profondo nella psiche, specie infantile e giovinetta. E che questo sia pericolosissimo non vedo proprio alcun bisogno di sottolinearlo qui. Stanno crescendo un paio di generazioni che avranno un cervello e un'anima più disposti di quelli delle precedenti alla normalizzazione di fenomeni di diffusa cruenza. Attenzione a un particolare importantissimo, comunque: anche padri e nonni superstiti erano tornati sconvolti e fatti più duri dalle due precedenti guerre mondiali e da quella del Vietnam, per quel di tremendo da loro visto, partecipato e subìto nelle violente azioni, particolari e collettive, di uomini contro uomini. Ma quella quantità di reduci costituiva una sia pur rilevante selezionata quota di popolazione. Mentre l'esibizione/ricezione attuale di violenza è diventata, invece, indiscriminato fenomeno di massa. Incernierato anche da un altro fenomeno assai vasto - di target più giovanile, questo - che offre continuamente spunti al cinema, come dal cinema in cambio ne riceve: i videogiochi. Così spesso anch'essi violenti, macabri, orroristici, crudeli, senza che tale subliminale valenza riesca ad essere sopraffatta da quei superiori requisiti di tempestività mentale e abilità manuale che al giocatore vengono richiesti.

C'era una volta il film «giallo», ereditato dal romanzo, e poi diventato «poliziesco» e infine «thriller», che non tutti tengono presente voglia dire, alla lettera, «scuotente». Il primo offriva da risolvere solo un gioco di enigmi: Nick (l'uomo ombra) & Nora, Marlowe (Mitchum), Sam Spade (Bogart) era dei cruciverba e delle sciarade che affrontavano, anche se nei loro film affioravano pistole. Il secondo in parte li proseguiva (Poirot, Maigret) e in parte adottava l'etichetta hard boiled che dice da sè cosa fosse a far premio sullo spettatore, chiamato adesso più a provare emozioni ruvide che a sollecitarsi intelligenza. Il terzo infine è dominato da assassini sadici, boia misteriosi ed efferati serial killers che lasciano in secondo piano gli investigatori (obbligati dalla convenzione ad essere solo in extremis vincitori) campeggiando proprio loro come protagonisti. E' un altro segnale di quella che in psicologìa si chiama sovrapposizione emotiva di sensazioni. Che crea cioè non tanto una diversità di percezioni quanto modifica in aumento la loro intensità. E quando essa giunge a un certo livello, da un lato attenua appunto per assuefazione i segnali di pericolosità, dall'altro quasi incentiva il parteggiare per il «cattivo» non foss'altro perché sottoponga a nuove prove la capacità avversaria dei «buoni», che tanto - a differenza della vita reale, non così docile alla prevalenza finale del bene come nelle fictions - ce la faranno, si sa, e resta solo la curiosità del come. Filone parallelo era quello cosiddetto western, in via d'estinzione anch'esso come «film d'avventure», e poi sempre più spesso a sua volta trasformatosi in palcoscenico di cinica macelleria. Insomma, rendere fattore ludico la violenza in sè, è diventato, potremmo dire, come condurci al Circo Massimo a veder combattere all'ultimo sangue i gladiatori o a farli gareggiare nei mors tua vita mea con le fiere. Fenomeno ancora non sparito perché ha crudele coda tutt'oggi nelle arene di corrida, dove rischiano infilzamento sia il torero scommettente con la spada che l'animale dalle corna puntate avanti aguzze. (Parentesi/sollievo di controtendenza: il municipio di Barcellona ha appena decretato l'abolizione di questi spettacoli, definiti anacronismi tipici castigliani e andalusi, anche se la Regione autonoma della Catalogna si cincischia ancora un poco sull'abrogare per legge le Plazas de Toros nel suo territorio perché teme minori introiti di valuta turistica).

Dato saliente sia per horror che per thriller è la spettacolarità, intesa come elemento di maggiore coinvolgibilità spettatrice, e peraltro sempre più rinforzata dagli «effetti speciali» messi via via più raffinatamente in campo dalle tecnologìe elettroniche digitalizzate. Ma il settore dove appunto la spettacolarità la fa meglio da padrona è il terzo che abbiamo qui in esame ed è la science fiction. Nelle sue due varianti di proiezione nel futuro e di rapporto fra l'umanità contemporanea ed esseri extraterrestri. Esaminiamo adesso quest'ultimo, allora, e nelle due accezioni che gli si possono attribuire: di sollecitazione futuribile appunto per la latenza che ha per ora in noi l'accelererasi di nuove scoperte che siamo vogliosi di anticipare almeno così; e di inconscio antidoto che ci permette di scaricare altrove e impersonandola in alieni la violenza che per ora fa polpette della nostra psiche e dei nostri princìpi morali sempre più scossi nell'habitat in cui siamo insediati per ora solo noi scannandoci a vicenda. Siamo ben lontani da quel profondo e raffinatissimo «2001, Odissea nello spazio», del cui titolo abbiamo superato da quattro anni la data, in cui Kubrick ammoniva con grande lucidità a guardarci da quel nostro padrone che il computer avrebbe cercato di diventare. E siamo lontani anche dalla ciclicità seriale delle «Star Wars» di Lucas che hanno appena oggi chiuso dopo circa tre decine d'anni il loro anello tornando acrobaticamente a un solo momento prima dell'originario prologo, e che sono storie/giocattolo quali, tecnologie a parte, avrebbero potuto esser concepite anche da un Salgàri e un Dumas padre. O da quel Pianeta delle Scimmie che concreta in apologo l'angosciosa spaziotemporalità ricurva su se stessa supposta da Einstein.

Sono i sequels del primo «Alien», quello di Ridley Scott, che, senza ripeterne la qualità, fan da prototipi alla trasformazione anche della fantascienza in un unico miscuglio "horrorthriller". E quando il ruolo di extraterrestri - che sono difficili da raffigurare in modo fantasiosamente convincente, tanto che le puntate di «Star Trek» han fatto stufare - è passato all'alterità robotica, cioè costruita dall'uomo, e già peraltro postulata (1926) da Fritz Lang in «Metropolis», è stato più facile che dopo un po' gli automi, con clamoroso dirottamento, diventassero anche personaggi comici e macchiette. O che si immaginassero invece mix trucemente umano-robotici nascondenti sotto normalità di apparenze antropiche (magari Schwarzenegger) scheletri meccanici, grovigli di fili elettrici e dovizia di sistemi elettronici. Esempio più tipico «Blade Runner», con sottoprodotto «Terminator» 1,2 e 3. Filone diverso, che nasce con «Nirvana» e prosegue con i tre «Matrix» è quello che invece non spaventa con efferatezze ma induce angoscia (anche la fantascienza come scatenamento di subconscia psiche ha un precedente nel «Pianeta proibito» del '56) concependo una duplicazione, con drammatici entra/esci, dei mondi. Ma anche questo, alla fine, produce indigestione, e quando la fantascienza si trova a corto di creatività, s'induce a tornare indietro e cimentarsi con le mummie dell'antico Egitto e con l'Atlantide sommersa immaginata da Pierre Benoît (ma ci sono alieni acquatici anche nelle profondità oceaniche di «Sfera»). Oggi, quest'estate compresa, ci stiamo come - per ora - ultimo atto riempiendo di paccottiglia standardizza-emozioni su cui fra poco non metterà neanche più conto di soffermarsi: le leggi del mercato appiattiscono fatalmente tutto. Solo Spielberg, con la sua nuova riproposizione di Welles a lungo durata nelle sale, riesce a spiccare. Ma lui merita un discorso a parte come portatore di messaggi presente/futuro questi sì pregnanti e lo farò, forse, la prossima settimana.

Insomma un'estate rovente. Una selezione di titoli? «Alone in the Dark», «Licantropia», «Amityville Horror», «The Island» (che non deve ingannare, perché quest'isola contiene un segreto orrendo), «Nella mente del serial killer», «Mindhunters», «Boogeyman/LUomo Nero» con sottotitolo «Il tuo incubo comincia adesso...». Non sono tutti, ma mamma mia davvero! I relativi manifesti non son da meno: si proiettano in primo piano mani unghiute e zanne, un teschio tira sempre, e anche un coltello insanguinato, facce stravolte in sogghigni diabolici, spruzzi di fiamme infernali, simbolizzazioni aliene, mostruose ombre indistinte sullo sfondo; e colori cupi, lividi, per non parlare della grafica dei caratteri in cui i titoli sono disegnati: anch'essi acuminati, sformati, sgretolati, in modo da esibire comprimaria inquietudine. Come se un'autentica ubriacatura straniante pervadesse il mondo della cineproduzione, creando un circolo vizioso per cui il volume d'incassi (dato che il publico ci sta) di questa merce induce a investimenti in questa direzione ancora più massicci, e la concorrenza si esercita in termini di chi sarà più audacemente bravo (?) nell'inventare suspences ancora più crudeli e nuovi mirabolanti trucchi che disumanizzino i protagonisti e li sottopongano a prove più atroci (fino al ridicolo, talvolta) di quelle già viste e consumate.

Con quali annotazioni concludere? Che si tratta contemporaneamente - e questo è solo fino a un certo punto un paradosso - di un avvertito desiderio di evasione dalle molte paure che proprio la realtà del nostro contemporaneo=postmoderno mondo ci infligge; il quale però non riesce a non farcele portare dietro tutte quante cercando alla fine solo di collocarle in differenza di contesti. Così non era, e si trattava ancora di pura avventura, quando negli anni Trenta la fantascienza visual apparteneva solo al fumetto e Gordon, o i nostri scienzati, combattevano con re Ming del pianeta Mongo o col cattivissimo sovrano planetario Rebo di «Saturno contro la Terra»», e Brick Bradford (da noi Guido Ventura) scendeva con una micronavetta sempre più progressivamente micro nel mondo molecolare dell'infinitamente piccolo trovando abitato da viventi intelligenti anche quello, o la matita di Walter Molino escogitava Virus, lo scienziato pazzo che aveva inventato il trasferimento (scomposizione atomica, e ricomposizione altrove) della materia facendone istantaneo vettore iperspaziale anche per gli umani. Questo per la fantascienza, che sempre più spesso minaccia il tramutamento in un onanistico attorcersi mentale fine a se stesso. Per la suggestione dell'horror e il gusto del thriller, invece occorre, credo, chiedere aiuto diagnostico ai neuroterapeuti. Nel primo caso, che sembra autococcolatoriamente più patologico, ci si potrebbe riferire ad aspirazioni esorcizzanti di tipo, per così dire, omeopatico. Per il secondo si potrebbe riandare all'inconsapevole desiderio di calare in story esattamente quel tipo di emozioni già infantilemte provate sull'ottovolante dei Luna Park. Suspence vuol dire infatti «star sospesi», proprio come in velocità lassù con improvvisi "dràang" di precipizio e risalita, e l'immagine è perfetta. Ma tutto è trasversalmente fusibile, come agevolmente si percepisce, dall'uno all'altro di questi "generi". C'è sempre una risacca cultural-rappresentativa e un lento trasferirsi modale nel susseguirsi anche della consecuzione temporale della produzione chiamiamola convenzionalmente - tenendoci cioè dentro i suoi livelli più nobili ma anche quelli mediocri e bassi - artistica. Per cui i poemi cavallereschi, ad esempio (con gli anelli il cui infilarseli produceva invisibilità e l'Ippogrifo come navicella spaziale attingente la Luna) fan da raccordo fra tutto il materiale precedente che va sotto il nome di mitologìa e quel che poi sarà l'avvenirismo di Jules Verne (però ancora dotato di personaggi certamente romantici come il capitano Nemo) e infine la tipologìa come già oggettivamente storicizzata delle «Cronache marziane» di Ray Bradbury. Il fatto che per tanti anni la collezione mondadoriana dei fantascientifici fascicoli di «Urania» fosse curata da due intellettuali raffinati come Fruttero e Lucentini (così come il loro eclettico omologo Oreste Del Buono curava per lo stesso editore la collana dei «Gialli») è buona dimostrazione che il trash, anche in questi campi, è solo odierno. E mal per noi.