Delle tre forme canoniche in cui veniva manifestata l'opinione giornalistica - fondo, elzeviro, corsivo - solo la prima è ancora sopravvissuta, nei quotidiani (i periodici usano a questo scopo le rubriche, pubblicandone settimanalmente più d'una e faceendo sentire così diverse campane), mentre la seconda è defunta da tempo e la terza è stata rimpiazzata da uno strumento mediatico diverso. Il fondo continua, quando c'è (posto che non è obbligatorio ogni giorno), ad occupare a una o due colonne la previlegiata posizione d'apertura della prima pagina. Esso manifesta un punto di vista proposto al lettore su un fatto od argomento di viva attualità; quando non è redatto da una "firma" appartenente al giornale stesso o da un collaboratore autorevole o da uno specialista della particolare materia trattata, ma è firmato in prima persona dal direttore oppure è anonimo, e rappresenta allora la posizione ufficiale della testata su quel tema, si chiama invece (ed è chiaro perché) editoriale. Ci sono dei giornali, peraltro, che dispongono di un vero e proprio gruppetto di cosiddetti "editorialisti", cioè firme affidabili per qualità e, a seconda della materia, competenze, cui questa rappresentanza è delegata. L'elzeviro invece (Elzevier era il nome di una famiglia di tipografi/librai olandesi del Rinascimento, che coniarono un carattere particolare ad aste leggere e con occhielli piccolissimi), stampato in genere con stile diverso e più elegante, e dedicato a tematiche squisitamente culturali ad opera di firme illustri, è scomparso con la scomparsa della stessa "terza pagina", quella appunto alla cultura riservata e di cui costituiva l'apertura classica, spostata in genere adesso e magari moltiplicata per due o quattro nell'area centrale della foliazione. Il che rappresenta abbastanza visibilmente il passaggio da una cultura elitaria a una cultura intesa come di massa. Quanto al corsivo, testo in genere molto breve e appunto in distinguenti caratteri corsivi composto, questo appare ancora qua e là negli spazi di un giornale ma il ruolo di colpo di staffìle, o improntato a sarcasmo, che aveva una volta è stato ormai quasi generalmente sostituito dalla vignetta. Affidata sempre allo stesso disegnatore, il cui personale segno è entrato ormai a far parte dell'immagine stessa della singola testata.
Bene, è proprio su quest'ultimo strumento mediatico che vogliamo stavolta concentrarci.
Nihil novi anche in questo campo. La satira viene dall'Ellade e dai fescennini. In Oriente e nell'Africa Mediterranea era la grevità dei regimi a impedire d'esser spiritosi a chi maneggiava càlamo o calcava palcoscenici. Lasciamo stare il Medioevo, troppo cupo per lasciar balenare sprazzi d'humour se non a livello giullaresco e plebeo pur contenendo per quasi eccezione letteraria anche la giocondità irriverente di Boccaccio e la parodìa sbracata dei poemi cavallereschi col «Morgante» di Pulci (cui poi seguiranno il Tassoni della «Secchia Rapita» e il grande Rabelais). Il Rinascimento, pur previlegiando Chiesa, mitologìa ed epiche varie lasciò pur trapelare le malizie di Pietro Aretino, e poi vennero via via ancora, per fili sporadici, le bizzarìe letterarie di quel bello spirito di Cyrano Hercules Savinian de Bergerac, l'arguzia del Parini, l'ironìa dei fratelli Verri e del loro «Caffè». Ma la satira per immagini esplose soltanto sui pamphlets della Rivoluzione Francese e poi sulle vignette antiaustriache di metà Ottocento partite dalla stampa piemontese e dilagate clandestinamente in giro per la Penisola. E dopo, in Francia, anche un eccelso delle arti figurative come Daumièr produsse graffianti vignette/caricatura e Grosz dipinse con efferata crudeltà le magagne della borghesia tedesca, mettendola non alla berlina ma addirittura alla gogna. E infine negli anni del primo Novecento anche in Italia i lettori dei giornali si abituarono a trovare abbondanza di vignette sfottenti e polemiche (un nome per tutti: Scalarini), contro i governi, contro il sorgente fascismo. Fin che si potè.
Su cosa si esercita, la satira? I suoi bersagli ricadono tutti nell'area della politica e del costume. I suoi vettori stampati sono il corsivo e la vignetta su qotidiani e magazines, quelli dal vivo il cabaret prima in teatro ed ora in tv. Quest'ultimo si è "mangiato" assai di quel che prima, di satirico, passava dall'edicola. Nel secondo dopoguerra usciva in Italia, infatti, un gran numero di settimanali di satira: «Il becco giallo», «Il Bertoldo», «Guerrin Meschino», «Don Basilio», «420», «Il Travaso delle Idee» (diffusissimo, che tutti chiamavano semplicemente «Travaso») e il più famoso di tutti «Candido», noto anche oltreconfine quanto lo era da lì il parigino «Le Canard Encheiné». Tutti spariti da quando nel capace ventre della televisione si son trasferiti, via cabaret e talk-show, i loro contenuti. Con maggiore efficacia d'audience ma, beninteso, con minore libertà. Al posto di disegnatori/spadaccini come Guareschi, Girus, Camerini e di disegnatori/umoristi come Mosca, Attalo, Manzoni, la satira fatta per gli occhi e le orecchie (e facile vittima di mille censure) dai vari Fo, Chiari, Guzzanti, Lionello, Luttazzi. Sui giornali, corsivi e vignette erano comunque a lungo coesistiti. Irresistibili corsivi quotidiani con firme pseudonime uscivano soprattutto su quelli di opposizione: «L'Unità (Fortebraccio, alias Mario Melloni il cattolico che da deputato della DC scelse di passare a dirigere il quotidiano del PCI), «Paese Sera» (Benelux, alias a turno Felice Chilanti, Ruggero Zangrandi, Gianni Rodari, Alfredo Orecchio, Marco Cesarini Sforza), «L'Ora» (Civis, alias Aldo Costa). Poi, i corsivi finirono e arrivarono i disegnatori. Le vignette non occorreva stare a leggerle, come la cartellina del corsivo: le assorbivi in unica occhiata ed erano fulminanti, scenetta sinteticamente sbozzata con uno o due personaggi e una brevissima battuta o scambio di due.
Inizialmente la vignetta era arrivata sui giornali italiani nella sua forma americana, la strip, versione grafica della barzelletta: una fila di quattro quadretti autoconclusivi. Così sono comparsi da noi, pungente presa in giro di costume familiare, prima Arcibaldo e Petronilla, poi Dagwood e Blondie, poi Hi e Lois. Ma anche Mafalda e i Peanuts, Garfield e Calvin/Hobbes, eccetera, tutti specchio di difetti e furbizie sociali). «Paese Sera» e «L'Ora» sono stati gli unici a pubblicare ogni giorno per anni, e con successo, una pagina intera di queste strips. Una dozzina per volta di autori tutti diversi. Ma «Paese Sera» si dotò anche in proprio di autori di strips: uno fu il giovanissimo esordiente Giorgio Forattini («Il professor Trombone») e l'altro Zac alias Pino Zaccaria («Gatto Filippo»). Prima che queste matite entrassero a far proprio parte del corpo del giornale, altre testate s'erano associate il disegno in altro modo, per via cioè di supplementi settimanali, dal longevo «Corriere dei Piccoli» (sor Pampurio, il signor Bonaventura, Pier Lambicchi, Marmittone...), che però era venduto separatamente dal «Corriere della Sera», al «Giorno dei Ragazzi» (Cocco Bill!) che invece era inserto vero e proprio del «Giorno». Ma questi non erano prodotti satirici, bensì eran fatti con storie comiche oppure avventurose.
Oggi nei quotidiani italiani il corsivo è la vignetta. Sempre in prima pagina. Corsivo figurato e non più scritto. Spesso pugno nello stomaco. Non c'è lettore del «Corriere della Sera» che come prima cosa non poggi l'occhio sulla vignetta di Giannelli. Non c'è lettore di «La Repubblica» che come prima cosa non poggi l'occhio sulla vignetta di Altan. Non c'è lettore di «La Stampa» che come prima cosa non poggi l'occhio sulla vignetta di Forattini. Non c'è lettore di «Il Manifesto» che come prima cosa non poggi l'occhio sulla vignetta di Vauro. Personaggio più gettonato di tutti, costantemente in testa nella hit parade delle sberle, il presidente del Consiglio Berlusconi. Che ognuno stilizza diversamente ma che tutti rappresentano come un nano. La vignetta è più frequentata di un fondo, dall'occhio del lettore, è impossibile che sfugga, è come fosse fosforescente, ghigna e morde, qualche volta infilza come fosse un ago sottilissimo e, naturalmente, spesso avvelenato, qualche volta è un vero fendente di scimitarra. Esistono ancora, i corsivisti/scrittori che tagliano la pelle. C'è Stefano Benni, c'è Michele Serra, c'è Massimo Gramellini. Ma il loro ruolo non è più centrale quanto quello di chi impugna matita. Peraltro assai più vicina di una tastiera ad essere immaginata come spada. Questi che la maneggiano sono ora dunque anch'essi giornalisti che fanno opinione. E creano passaparola («Ma l'hai visto l'Altan (o il Vauro) di oggi?», si ritagliano e conservano, o si scannerizzano per allegarli a mail. Alcune finiscono appuntate in bacheca sopra la scrivania del luogo di lavoro, altre magari in cornice a casa. E' un genere che viene da lontano e l'abbiamo in questa carrellata costatato. E in fondo se occorre un simbolo della libertà di stampa che ancora resiste anche se ogni tanto scricchiola, bèh La Vignetta potrebbe benissimo esserlo essa. Perfino Bush teme le matite che disegnano per il «New Yorker» e anche questo mantiene vivo quell'ex-Quarto Potere che è la stampa (ora che da noi perfino il Terzo, la magistratura, finisce sottoscopa da parte del potere politico e deve, inauditamente, scioperare per difendersi, e cercar di continuare a difendere come si deve i cittadini).
Avevo detto più su dei due disegnatori di vignette lanciati da «Paese Sera», ma anche «L'Ora» ne ha lanciati ben quattro (e della loro scoperta mi faccio merito personale avendoli utilizzati, prima ancora d'esserne direttore, da capocronista; e del resto per quel giornale di vignette ne ho disegnate anch'io, oltre che far corsivi e fondi). Si tratta di Gianni Allegra, che oggi fa la sua tremenda vignetta quotidiana per l'edizione palermitana di «La Repubblica» con lo stesso personalissimo stile con cui illustra libri e che ha esibito in molte mostre le quali evidenziano anche l'uso magistrale e vivacissimo che fa del colore. Di Franco Donarelli, che fa malvolentieri l'ingegnere ferroviario ma la notte si trasforma come Batman, Nembo Kid o l'Uomo Ragno (oggi potremmo, più adeguatamente al personaggio, aggiungere Paperinik) per brandire pennarelli e scaraventare in giro via computer fra le più esilaranti vignette satiriche che si sian viste. Le Ferrovie, pensate, gli hanno pure pubblicato un libro-strenna in cui questo suo mostruoso datore di lavoro lui lo sfotte con candida atrocità. Di Vincenzo Gallo, oggi meglio nazionalmente conosciuto come Vincino per le scombiccherate vignette che pubblica, così firmandosi, sul «Corriere della Sera» e su un paio di settimanali; quando, studente neanche ventenne, disegnava su «L'Ora» invece non si firmava per niente perché guai se suo padre, direttore allora del Cantiere Navale palermitano, avesse saputo che suo figlio lavorava per un giornale di sinistra. E infine di Emanuele Di Liberto, detto Nuele, che aveva un estro spiritosissimo ma che, unico fra loro, ha seguito poi un'altra strada, anche se di successo anch'essa. Ha un atelier a Milano e vi dipinge quadri astratti, che vende molto bene.