Si parla molto di «cultura di destra» e di «cultura di sinistra». E per lo più a vanvera, ahimè. Entrano, insomma, in circolo dei termini i quali, a furia di sbattere in curva lungo i flessibili vasi della mass-communication pulsanti a martello, si ottundono e non lasciano più trapelare significati effettivi ovvero li deformano. Ha ancora un senso, ossìa lascia riconoscibile la circoscritta sostanza di quel che vien detto, nominare per esempio «cultura contadina» o «cultura metropolitana». O riferirsi a una quantità di diverse «culture etniche»; i Maya non sono mongoli, né i Làpponi sono sahariani, e fin qui ci capiamo. E anche dire, per esempio, «cultura giuridica» ci lascia comprensione precisa di quanto intendiamo; cioè qualcosa di specialistico. Ma la destra e la sinistra, la droite e la gauche, cosa sono, cos'erano, cos'è possibile che ancora siano domani, termini nati come sono nelle aule parlamentari per indicare costantemente da quale parte di esse stavano seduti quelli con i colletti flosci e quelli che invece ce li avevano inamidati? Questa terminologìa è dunque meramente politica e non sarebbe accettabile trasferirla in altri campi come separé classificatorio fra i concetti, per esempio, di "classico" (destra?) e "di romantico" (sinistra?), essendoci sì nel primo comparto, antichità a parte, gli Umanisti e gli Illuministi in qualità di ordinatori del sapere ma anche Milton o Cervantes a far salti in avanti ritenuti allora bizzarri, e nel secondo sì un movimentato giardino che comprende Manzoni e Byron ma anche, e checché si dica, Lacerba e i Futuristi che ne sono l'opposto.
Proviamoci, su, a riempire uno scatolone con la cultura "di destra" e un altro con quella "di sinistra": A destra chi ci mettiamo? Macchiavelli, il marchese di Villabianca, Nietzsche, Wagner, D'Annunzio e Dalì, Papa Pacelli, Ezra Pound, Achille Starace...? E nello scatolone riservato alla sinistra? Marat e Tocqueville insieme (stessa medaglia, due divergenti facce), Carlo Marx, Picasso, Chaplin, Gramsci, Pasolini, Fo e la Guzzanti, Cacciàri...? Resterebbe che non sapremmo comunque dove mettere, se maccheronicamente tertius scatolonus non datur, Hemingway e Svevo, Einstein e Mondrian, Slataper e Musil, Freud e Foucault, Eduardo De Filippo e Totò De Curtis... e quanto si potrebbe continuare ancora, dài, nell'allineare di qua e di là nomi che, per attendibili siano le motivazioni concernenti ciascuno, allarghino quelle che comunque due anche se differenti belle insalate confezionate rimangono, una con etichetta rossa e l'altra bianca.
Sapete invece come si può probabilmente (o anche solo forse: un pìzzico di dubbio non guasta mai) venirne a capo? E magari, ma soltanto per semplificare, partendo proprio dalla politica (nel cui bacino appunto la cultura sempre in un modo o nell'alto si introduce, pur sofferentemente coabitandovi anche con ottuse rozzezze)? Sostituendo a concetti come "destra" e "sinistra" ormai così sfrangiati, e spesso addirittura prestantisi metodi e baffi finti a vicenda, quei termini che contraddistinguono in altri Paesi le grandi bipartizioni politiche di massa: Wighs e Tories in Gran Bretagna, "democratici" e "repubblicani» in USA, SPD+Verdi e CDU+Liberali in Germania (Francia e Spagna a questa esemplificazione non si prestano vigendovi una maggiore e più fluida articolazione stratificata di raggruppamenti e sub-raggruppamenti). Perché così facendo potremmo rintracciare, al posto della segnaletica meramente topografica nostrana, il senso vero che connota, nelle democrazie consolidate, una bipolarità di schieramenti. Potrebbero, pur ricadenti in territorialità nazionali diverse, aver rispettivamente nome cioè, questi due versanti-chiave, e in senso adesso sì universale, di conservatori e progressisti. E allora è da qui che muoverò una considerazione la quale magari non da tutti sarà voluta accettare, e me l'aspetto, ma che è a mio modesto modo di vedere invece abbastanza lapalissiana.
Conservatori e progressisti, abbiamo detto. E ritengo che questi due aggettivi sostantivati descrivano molto meglio della ripartizione di "destra" e "sinistra" così come oggi da noi esse si presentano - e peraltro entrambe con la profilattica parolina «centro» infilata come un fiore pudico nei capelli - qual è anche, appunto, la matrice culturale cui sostanzialmente corrispondono. Conservazione e progresso sono due concetti di una chiarezza assoluta, e una volta che ci decidessimo a sostituirli a quella nomenclaura ormai rimasta funzionale e scevra d'errori soltanto a definire le nostre due mani e due inverse corsìe autostradali, potremmo con più oggettiva tranquillità adoperarli per configurare con più precisione quel che ci interessa, e cioè due tipologìe culturali le quali sono, peraltro, praticamente in campo da sempre e dovunque. Quella, rispettivamente (e lo dico proprio in soldoni), di chi surgela e quella di chi innova, quella ferma e quella in movimento; e spoliticizzandole così poiché è questo che conta - in un certo senso entrambe.
Vogliamo provare a dar loro adesso quei distinti connotati che sono, alla miglior luce così procurataci, a ciascuna di loro spettanti? E allora: una cultura che non chiameremo più, nebulosamente, di destra bensì conservatrice, di cosa può essere intessuta e quali linee di indirizzo può manifestare? E analogamente una cultura che non chiameremo più, e anch'essa nebulosamente, di sinistra bensì progressista, di cosa può essere a sua volta intessuta e quali linee d'indirizzo può manifestare?
E' conservatrice una cultura le cui caratteristiche stabiliscono scaffali di nozioni bene ordinati e una struttura a schemi considerati acquisiti in modo permanente. Non la considereremo tuttavia e ciononostante immobilistica tout court: sia perché capace di rivoluzioni all'indietro ogni qualvolta sentisse il disagio di mutamenti che nella struttura sociale, nel costume, nelle iniziative politiche, facessero scricchiolare qualcosa cui tiene o creasse situazioni cui non sa adattarsi; sia perché altrimenti dimostreremmo di non avere mai letto «Il Gattopardo».
E' progressista una cultura la quale invece si connota come laboratorio aperto e terra d'esperimenti. Nella quale insomma ribolla sempre l'ansia e la curiosità del nuovo, e il torrente sia vincente sull'argine producendo fecondità invece di danni. Essa sa che la natura non è un mistero cui arrendersi e che i confini della sua conoscenza possono essere spinti tanto avanti da poter via via negare e non confermare un sacco di «verità» date prima come scolpite aere perennis. E sa pertanto come sia invece misterioso e imprevedibile il destino dell'uomo, cui vanno assegnate non strade di fatali certezze ma strade di tentativi che ne migliorino le condizioni e gli conferiscano più congrui e fantasiosi modi di esprimersi.
Il progresso non è lineare e non lo è, beninteso, neppure la conservazione. Solo che il primo non lo è proprio per definizione intrinseca e la seconda può non esserlo unicamente per tattica o strategìa. Il progresso può rallentare il passo e magari tramutarsi in episodi conservatori (potremmo fare qui un discorso che parte dalla destra staliniana e si prolunga fino a Putin, o che parta da Modigliani e si divarichi poi in De Chirico e in Guttuso, però lo spazio pure ampio di questa rubrica non lo sopporterebbe) ma la conservazione, proprio in quanto tale, non potrà mai avere ali effettive di progresso, anche se talvolta lo finge.
Bene, siamo arrivati al punto in cui i remi vanno tirati in barca. E siccome è ormai accertato che non tutti i conservatori sono di destra e non tutti i progressisti sono di sinistra, io proprio la smetterei di parlare di «cultura di destra» e «cultura di sinistra» come fossero ancora delle categorie canoniche. Il percorso che ho seguito mi pare serissimo anche se nello svolgerlo ho usato talvolta i toni dello scherzo, che non è mica sempre un istituto futile. La cultura è un'amalgamata somma di attitudini, esperienze e saperi e dunque non è né di destra né di sinistra, mentre lo può invece essere l'uso che se ne fa. Ma se noi parleremo invece, d'ora in poi, di una cultura conservatrice e di una cultura progressista, sapete quanti sono gli equivoci, che ci hanno sin qui reso intricata e sovente anche fallace l'attività del dirimere, nei quali potremo evitare di incorrere ancora? Oddìo, non sarà facilissimo lo stesso perché codesti versanti si compongono ambedue di un reticolo di correnti di pensiero, ma almeno avremo fatto piazza pulita di una serie di ipocrisìe. E di una schedatura prioritariamente politica delle fonti che producono i fenomeni intellettuali ed artistici. Fenomeni che, appunto, nella politica potranno anche aver ricadute o rimanerne in parte coinvolti, ma che della politica volano, béh, un po' più in alto. Possedendo anche la capacità di giudicarla. E' l'inverso, diciamolo, che riesce purtroppo sempre meno spesso.