Freschi come siamo di una serie compatta di chiamate dei cittadini italiani alle urne (peraltro non esaurita perché ci sono ancora in calendario molti ballottaggi locali e un referendum) qualche annotazione credo vada a questo punto fatta sui meccanismi e sui prodotti della comunicazione elettorale. Pensandole utili non tanto a commentarne gli esiti, ché da tale genere di contrastanti commenti siamo per ora addirittura annegati, ma ad analizzarne le caratteristiche preliminari e conseguenti e le relative proprietà sistemiche. Individuando i pericoli insiti nel modo di gestire questa macchina; che ha un pregio di fondo, quello di essere comunque uno strumento democratico, ma è irta di difetti anche gravissimi. Il test più ampio è stato quello regionale, cioè quello dalla campagna elettorale più variegata, essendoci in ciascuna problematiche diverse, esigenze diverse, alleanze diverse; eppure a questi messaggi tutti questi distinti elettorati hanno risposto con un messaggio che invece buttava l'occhio fuori dai confini regionali e dava una somma tutta dello stesso segno. Il che è un dato senza dubbio interessante perché toglieva a queste elezioni un carattere assegnato, che le privava di significato nazionale, e lo sostituiva con un altro; appunto complessivo, il quale obbligava a conseguenze revisioniste; prima negate e poi dovute recepire e anche di corsa.



Partiamo da un presupposto. Non effettuabili più - da quando al posto delle polis che potevano contenere tutto intero l'elettorato in una sola grande piazza ci sono gli Stati nazionali - forme di democrazia diretta, si è dovuti passare, una volta superati assolutismi secolari, a forme di (questo è almeno il nome che si è loro dato) democrazia delegata. Chiamando cioè gli elettori uno per uno a un seggio, per fare dopo una labortosa conta. Ed eleggendo così, per esprimere strutture di governo, degli organismi intermedi: Parlamenti, Assemblee, Consigli, Comitati. Che diventano dunque «rappresentanza», e cioè corpi votanti di secondo grado. E naturalmente non esiste un'unica procedura modale per far ciò: la legge regola diversamente Paese per Paese e secondo gli àmbiti territoriali (nazionale, regionale, dipartimentale, provinciale, comunale, circoscrizionale) i criteri con i quali ottenere l'assegnazione numerica dei seggi. Tale termine è unico ma stavolta non si tratta di quelli cui si va a consegnare una scheda bensì di quelli su cui gli eletti andranno proprio materialmente a sedere. Talvolta divisi in due strutture diversamente composte, come nei sistemi cosiddetti bicamerali. E', a livello nazionale, il nostro caso: con un Parlamento suddiviso in Camera dei Deputati, tutti pervenutivi per suffragio, e Senato della Repubblica, che comprende invece anche un ristretto numero di chiamati a vita per riconosciuto prestigio, meriti speciali o figura di ex capo di questo nostro Stato. Ogni altro Stato ha le sue regole, frutto di tradizione invalsa e consolidata da legislazione, e tuttavia, ma sempre per nuova legge promulgata, passibili di mutevolezza. Alcuni poi, tranne ovviamente le residue monarchie, affidano ad elezione rimasta diretta, ancorchè avente per ovvio tramite l'insediamento di seggi elettorali disseminati sul territorio, la sola elezione del capo dello Stato (che in qualche caso - gli USA, ad esempio, o l'ex URSS - è anche il capo del governo; nel nostro no, perché essa avviene con voto delle due Camere congiunte).

Il quadro abbisognerebbe ancora, per essere completato, della descrizione dei singoli sistemi che vengono nelle varie Nazioni adottati, o via via adattati secondo esigenze di garanzia rappresentativa o spinte di quadro politico. Ed essendo ovviamente in questa sede impossibile descriverli tutti, occorrerà che ci limitiamo alla situazione italiana con solo qualche spicciolo riferimento comparativo. E allora c'è intanto una grande ripartizione da fare: quella fra metodo maggioritario e metodo proporzionale. Sottolineando come nella sua storia politica anche recente l'Italia li abbia sperimentati tutti e due, assieme a quello detto uninominale (per il Senato prima ma ora anche per i sindaci e i presidenti di Regione) stando al quale ogni partito o schieramento presenta non rosa di nomi ma un candidato unico e la gara non è dunque solo su idee e programmi ma proprio fra due o più personalità. Facendo così entrare in campo pure requisiti di simpatìa ed efficenza individuali. Il maggioritario è più semplice: gli schieramenti si aggregano praticamente in due squadre e quella che prende anche un solo voto più dell'altra vince tutto mentre questa se ne va all'opposizione. Il proporzionale è più garantista: perché ogni specifico elemento della rappresentanza così risultata peserà esattamente per quanti voti avrà ricevuto, riproducendo in piccolo esattamente la sua presenza e la sua forza, o esiguità, nel Paese.

E' una volta detto tutto questo che cominciano però i pasticci. Perché sia l'uno che l'altro sistema possono venire, con varie modalità, "corretti", o si può addirittura introdurre un dispositivo che li renda misti ed applicabili per quote. In concreto: se per l'anno prossimo la legge elettorale non verrà modificata (quando si è nell'ultimo anno di una Legislatura ciò è veramente difficile, e anche abbastanza scorretto), i seggi verranno assegnati per il 75% col sistema maggioritario e per il 25% con quello proporzionale. Quanto alle "correzioni", il maggioritario può anche prevedere un cosiddetto «premio di maggioranza» (con l'assegnazione al vincente, che lo potrebbe essere in misura troppo tenue e perché non resti precariamente sul filo del rasoio, di un pacchetto-regalo consistente in congruo numero di seggi in più). E anche al proporzionale il voto per il simbolo in corsa può essere affiancato da "voto di preferenza" dato dall'elettore a uno o più dei candidati messi in lista. In questo caso decide lui chi sale, perché si crea un ordine di preferenze possibilmente diverso da quello che compare nella lista dei nomi, se no i seggi conquistati vanno nell'ordine ai primi candidati dell'elenco, e allora sarà come se gli entranti li avessero scelti già in precedenza non gli elettori ma i partiti presentatori di ogni singolo simbolo. E poi c'è una variante possibile (è applicata in Germania, p. es.) che vale sia per il maggioritario che per il proporzionale. Cioè la cosiddetta "soglia": chi non arriva al 2, o 4 - e c'è chi vorrebbe addirittura il 5% - dei voti raccolti viene considerato presenza dispersiva e tagliato fuori dall'assegnazione di seggi; non sarà cioè in alcun modo rappresentato fra gli eletti.

Detto questo, vediamo un po'. E allora...

PRIMO - Gli elettori sono anzitutto disorientati dal succedersi di troppe successive modifiche, sia di novità che di ritorno indietro, delle leggi elettorali via via proposte, discusse, combattute ed approvate. In merito il nostro Paese ha quasi un record. E dalle differenze talvolta marcatissime che le segnano rispetto al modo precedente. A seconda del mecanismo adottato, i voti in cifra restano quelli che sono ma non producono, come si capisce, lo stesso effetto sulla ripartizione di seggi. E può accadere, per calcolata bislaccheria legislativa, che lo schieramento X abbia in tutto più voti ma non corrispondente numero i seggi, assumendo così ruolo di minoranza.

SECONDO - Queste leggi, che dovrebbero sempre riprodurre regole del gioco comuni, cioè accettate da tutti i concorrenti, sia di maggioranza che d'opposizione, sono invece normalmente imposte da una maggioranza, in cerca di propri previsti vantaggi e quindi in modo strumentale dettato da contingenza. cioè dal quadro del momento, verificato da quel prologo di esiti elettorali che sono i sondaggi. Quando la demoscopìa è preventiva all'appuntamento elettorale diventa un'arma a più lame - e quasi sostitutiva, data la perfezione metodologica raggiunta - in quanto, ove attendibile ma anche se non lo fosse, anticipa qualcosa, e quindi esercita sugli elettori delle influenze psicologiche di tipo imprevedibile; che possono essere sia assecondanti nell'incrementare un trend in qualche modo così costatato, sia modificatrici della propria stessa originaria intenzione di voto orientandolo in modo strategicamente diverso.

TERZO - Le elezioni sono di vario tipo e livello, hanno fondamento politico se sono nazionali, amministrativo se riguardano Regioni o altri Enti Locali; e vengono a priori in questo modo diversamente valutate. Ma se il numero di queste entità amministrative che rinnovano i propri organi in una sola tornata è molto alto, oppure se il loro risultato si dimostra alla fine ovunque omogeneo nello scegliere conferme, bocciature e relativi avvicendamenti, è chiaro che questi risultati non possono che assumere connotati politici e chiamano a trarne conseguenze generali.

QUARTO - E' chiaro altresì quali sarebbero i danni che subirebbero quelle formazioni che a livello di vertice non ne tenessero conto. La comunicazione elettorale è infatti assolutamente bidirezionale. Da un lato c'è quella che si chiama campagna elettorale e che contiene i messaggi rivolti alla gente dai gruppi o dalle alleanze di gruppi e dai singoli candidati. Ma è altrettanto comunicazione elettorale quella che ai cartelloni, alle promesse e agli slogan replica, e si manifesta dopo gli scrutini con il responso, costituente vera e propria pagella ed esprimente volontà, dagli elettori fornito. E quando un mesetto fa, per esempio, si costata che delle venti Regioni che compongono l'Italia ne restano agli uomini della maggioranza solo tre, è appunto il governo nazionale che deve sentirsi destinatario di questo giro di boa dell'opinione complessiva. Confermato del resto dagli esiti di un grosso lotto di elezioni comunali e provinciali verificatosi a ruota. Nè lo cambia la resistenza mantenuta dall'ultimo fortino governativo (Catania municipio) dove comunque sono intervenute formazioni nuove che hanno rimescolato carte e perseguito nella stessa maggioranza, in calo di voti, soluzioni divaricanti.

QUINTO - Quando lo scacchiere si movimenta così, avvengono poi altri fenomeni. Il fronte governativo per panico e quello dell'attuale opposizione parlamentare per euforia si stanno entrambi disarticolando. I motivi sono opposti ma gli effetti identici. E l'elettorato, che si è appena dimostrato capace di un'espressione univoca, rischia di essere disorientato di nuovo una volta che le componenti maggiori di entrambi gli schieramenti hanno prima manifestato proposito, e poi mosso anche pesanti pedine mostrando volontà, di tenere d'ora in poi strade proprie e differenziate anche all'interno delle rispettive squadre. Che difficilmente ora potranno mantenere l'una il nome di Polo e l'altra quello di Unione. Una destra che si rifiuti di essere destra e una sinistra che si rifiuti di essere sinistra - ed entrambe per paura - quali connotati di riconoscibilità possono offrire? Puntare al centro ha un solo possibile esito: il riagglomerarsi di un'esperienza già fatta, che si chiamava Democrazia Cristiana, la quale conteneva al suo interno sia una sinistra che una destra, dispensava sonniferi e varò un'ideologìa che si chiamava lottizzazione). La stessa parola "moderati» di cui si stanno riempiendo per ora la bocca tutti i contendenti (la caccia all'elettorato moderato è ormai dichiaratamente aperta da ogni da parte e ognuno cerca il suo), è termine senza senso proprio, come quando si dice «operatore ecologico» invece di «netturbino» o «non vedente» invece di «cieco», e dunque sostanzialmente ipocrita. Nel «Dizionario della politica» di Gino Pallotta la definizione datane non può essere più chiara di così: «Storicamente "moderato" significa "conservatore"». C'è da mettersi le mani nei capelli, perchè la politica non può consistere in un contagio di equivoci.

CONCLUSIONE - Non sono un politico nè un teorico della politica ma semplicemente, come docente e come giornalista, un osservatore di fenomeni. E se dovessi dare un consiglio, che nessuno di essi peraltro mai mi chiederebbe, ai rivali in campo, direi loro di non inventare per le loro liste altri suggestivi nome da cartone animato, di rendere più semplice il quadro (domenica scorsa una scheda elettorale conteneva tanti nomi da essere lunga 99 centimetri e creava un sacco di problemi), di puntare meno sulla fototessera dei leader e di più sui programmi che si vogliono attuare ove vincenti. E quanto a questi programmi, meno paroloni e primo piano invece su fatti concreti. Uno-due-tre punti di grande chiarezza per ciascuno. L'ex Polo, per esempio potrebbe puntare (e guadagnerebbe molto a Sud) sul ripudio della Lega e sullo smetter di pagarle un continuo pizzo, dato che è stata anche la rozzezza di questa scomoda alleata a causargli quell'emorragìa di voti; sullo spostamento verso l'economia sociale delle risorse attualmente postate sui faraonismi delle "grandi opere", sui costi di guerra e sugli stillicidi d'apparato che innervosiscono la gente; sulla restituzione di affidabile qualità e autonomia all'informazione del servizio pubblico radiotelevisivo. E l'ex Unione dovrebbe mettere al centro del suo proporsi, invece di bellissime genericità, argomenti che adesso adopera inspiegabilmente poco: tipo, in primissimo luogo, quello della difesa della Costituzione, che l'attuale maggioranza vuol cambiare nel senso (richiamante cultura golpista) che se c'è una crisi è il capo del governo a sciogliere le Camere e non più queste a mandare a casa lui; e quello di un premier che, mentre l'economia nazionale è a rotoli, in quattro anni di governo triplica il proprio patrimonio personale, anche col farlo godere di alcune apposite leggine; e quello che l'Italia deve smettere di opporsi ai valori e agli indirizzi d'Europa solo perché essa ci rimprovera di non saper risolvere i nostri problemi economici e di pubblico bilancio.

Che la legge elettorale, insomma, sia maggioritaria, proporzionale o mista, può non essere importante se le parti in lizza sanno far uso di ragionamenti invece che di pressioni, di fatti invece che di seduzioni, di prove di comportamento invece che di prestidigitazioni. E invece pare che ciascuna parte si presenterà scomposta in forma d'insalata russa o di macedonia di frutta sgambettandosi magari dall'interno. Con una campagna elettorale rispettiva che ci lascerebbe solo di poter confidare nel buonsenso discernente dei ceti che compongono una popolazione esasperata. Scelga l'elettorato, chi premiare e chi punire dell'una e dell'altra parte, e poi si veda. Chi vince vince. Anche se è un vero peccato che l'analisi dovuta fare sia questa qui.