Stabiliamo una cosa banale. Che gli umani comunicano sempre fra di loro; ed anche, fra di loro, gli animali pur se più difficilmente fra specie e specie. Perché un cane e un gatto magari dei messaggi se li possono fra loro lanciare ma fra una seppia e un pappagallo il rapporto comunicativo è certamente più problematico. Pare che invece le formiche, per esempio possano scambiarsi, strofinando le antennine, non solo notizie ma addiritura opinioni. Gli umani, da parte loro, subiscono separazione comunicativa non solo per differenze di qualità e livello (l'up and down di Watzlawick) ma anche perché parlano una gran diversità di lingue e dialetti. Hanno però sempre la risorsa del linguaggio mimico-gestuale: se uno ad un'altro fa vedere la sua mano sbattuta sulla pancia e poi, unendo la punta delle dita se le porta ripetutamente verso la bocca, all'interlocutore verrà chiarissimo che quello ha fame e vuole mangiare, e ciò anche se uno è patagone e l'altro làppone.
Ma noi oggi ci occupiamo della comunicazione fra uomo e animale. Che può essere di vario genere. Se con la zanzara andiamo per le spicce e l'unico messaggio che le lanciamo è lo schiaffo avventatole per schiacciarla, dato che quello di sventolare la mano per allontanarla non lo capisce, e se con una tigre che ci inseguisse mentre noi scappiamo è massimamente evidente sia per l'una sia per l'altro che cos'è che rispettivamente vogliamo, altro è il nostro rapporto con gli animali domestici. E non intendiamo le galline del pollaio o i maialoni del porcile, che per noi sono cibo, ma con il nostro canelupo ovvero yorkshire o la nostra micia o il nostro cavallo (anche se quest'ultimo ce l'abbiamo davvero in pochi da quando le carrozzelle si son così diradate e i reggimenti montati non esistono più) il rapporto che si intrattiene è addirittura affettivo; e quel che dobbiamo reciprocamente dirci è sempre bilateralmente comprensibile, e anche in modo molto articolato. Io con miei gatti, per esempio, parlo anche al telefono, quando sono lontano, perché loro conoscono la mia voce e io distinguo il diverso timbro dei loro miagolìi quando, percependola, avvicinano il muso alla cornetta. Ovviamente, non so esattamente bene cosa gli dico perché mi limito ad imitare la loro fonìa, però sappiamo dai due lati che ci stiamo scambiando delle amichevoli smancerìe.
Acquaticamente possiamo scambiarci gioco con i delfini e a un colorato ara brasiliano possiamo anche insegnare a parlare e a dire con gusto le parolacce. Così come uno scimpanzè (ma tanto, lui è il nostro quadrisavolo) può anche aiutarci a fare la spesa e poi stare a tavola con noi, vestito con salopetta e maglioncino. Alle circensi pulci ammaestrate non ho mai creduto molto, ma ho visto molti orsi e grossi felini e pachidermi obbedire coscienziosamente alle più bizzarre richieste di un loro domatore, sotto il classico tendone dove ora è giustamente proibito tormentarli ancora. Chiaro che quell'uomo in giacca rossa ed alamari e quei bestioni comunicano. E in India gli elefanti vengono usati singolarmente oppure in squadra proprio come manovalanza di fatica. Però mi domando fin dove ci si possa spingere, e in particolare andando verso le specie non mammifere, la cui cultura di vita è abissalmente distante da quella delle bestie con quattro zampe. Il rapporto amoroso che ha una cinghiala o un'orsa con i propri cuccioli dipende dal loro minimo dato numerico, mentre una sardella o un'orata, che di uova ne fanno migliaia alla volta proprio perché sanno che il grosso della figliolanza altro non sarà che pietanza per altri pesci più grossi hanno solo la preoccupazione istintivamente atavica, e del tutto priva di sentimentalismi, di far sopravvivere la loro specie.
Fin dove dunque è possibile spingersi, e in diversi casi ci si spinge, in un rapporto domestico con tipi di animali, che per esempio vengono classificati esotici? Quando io ero bambino avevamo in casa, dentro un barattolone di vetro con in fondo acqua da cui emergevano un isolotto di coccio e una scaletta di legno che arrivava fin su, una speciale rannocchietta verde con la pancia gialla che si chiamava rana temporaria e che noi usavamo come strumento. Fungeva cioè da barometro: quando si annunciava alta pressione stava in basso, e quando alta si arrampicava su (o viceversa, ora non ricordo). Io acchiappavo le mosche per nutrirla; sollevavo il coperchio e le infilavo dentro aprendo il pugno. E loro svolazzavano finché lei le centrava con una lingua incredibilmente lunga che le guizzava fuori dalla bocca in modo fulmineo. Diciamo che esercitavo una crudeltà inconsapevole sia verso la prigioniera che verso la sua pappa vivente. E adesso, fattone consapevole, non sopporto chi tiene in casa, che so, criceti in gabbia fornita di giocarelli nonostante i quali non possono che diventare isterici, o quella decorazione animata che sono i pesci rossi all'ergastolo in una boccia così anonimamente deprimente al confronto del torrente algoso o del lago con le ninfee in cui dovrebbero avere esclusivo habitat; o quelli coloratissimi dalle pinne e dalle code fluenti come falpalà in vasche quadrangolari con rocce finte e conchiglie che sembrano il video di un cartoon.
Sono entrato in uno di questi negozi specializzati, di recente, e fra le varie qualità di pesci vivi esposti, tutti prezzati con un'etichetta sul vetro dello scaffale dove fanno le bollicine in attesa che una reticella da immergere li consegni a un cliente, ne ho scoperto uno dove c'erano delle murene e uno dove c'erano nientemeno dei pirañas, costo 2 euro e 90 ciascuno. Ora, le murene anche si mangiano (e ce l'ha vive in vasca, accanto agli àstici, pure qualche ristorante di mare), ma i pirañas invece mangiano te. Bèh, anche le murene per questo, e si tramanda che gli imperatori romani più cattivi le nutrissero appunto di carne umana, soprattutto schiavi colpevoli di qualcosa e buttati là dentro vivi come facevo io con le mosche per la mia ranocchia. E debbo dire che al vedere le bocche aperte di queste due specie marine così irte di dentini micidialmente aguzzi mentre si avvicinavano al vetro perr guardarmi con occhi perfidissimi e feroci, me ne veniva gran brutta impressione. Eppure, se erano lì vuol pure dire che esiste un mercato per fare in casa propria (in soggiorno o nello studio?) una vetrina dell'orrido. Professionisti? Intellettuali? Piccoloborghesi che hanno nostalgìa di Salgàri? Io conosco uno, un giornalista, che in casa tiene due iguane. Pacificamente erbivore e molto bonaccione, queste, non mancano tuttavia di spaventare quando entrano fianco a fianco o in fila indiana con lento caracollìo nel soggiorno dove ci sono ospiti e si fermano a guardarli con curiosità sbattendo le loro codone crestate.
Racconto un episodio, adesso, che mi consente di entrare nel vivo di un fatto comunicativo cui bisognerebbe attribuire più attenzione di quella che ho ahimè nell'occasione costatata. Una vetrina è un palcoscenico, è allestita per comunicare qualcosa. Facevo una passeggiata verso casa reduce da una riunione e vengo indotto a fermarmi davanti alle grandi vetrine di un negozio di animali. Una era tutta occupata da un vascone nel quale nuotavano tre squali. Piccoli, intendiamoci, quanto potrebbe essere un branzino di quelli grossi, ma inequivocabili nelle movenze, nella struttura anatomica e nelle caratteristiche pinne, negli occhi fissamente tondi e soprattutto in quella bocca arcuata sotto il muso a cono e piena di denti. Il pesecanone di Spielberg miniaturizzato. Una razza mignon o cuccioletti cui comunque impedire di diventare adulti? Mi sarei anche informato, ma lasciamo stare, con quel che è avvenuto dopo. Passo alla vetrina accanto e c'è un'altra grandissima vasca ma che mi appare vuota. Ci sono solo grandi sassi e tronchi d'albero secco, con un fondo di terriccio. Poi ci scopro dentro uno di quei topolini bianchi con coda, zampette e orecchioni rosa, di quelli che fanno tanta tenerezza ai bambini. Non l'avevo visto subito perchè stava acquattato dietro a un ciotolone, ma solo quando si è messo a correre su e giù come impazzito. Non mi spiegavo come uno spazio così grande per un animaletto così. Poi però la storia comincia.
Si fa avanti dall'interno del negozio un uomo che, arrivato dietro a questo gran contenitore vitreo, vi protende dentro un'asta con le pinze mobili in cima, come quelle con cui i negozianti afferrano i barattoli negli scaffali alti. E abbranca con essa il topino. Io penso che sia perché c'è un cliente che lo sta comprando. Macché: quell'uomo allunga il braccio alzando l'animaletto fin sopra uno di quei tronchi secchi, e lo agita come a mostrarlo mentre quello zampetta come un pazzo. Ed ecco che da dietro quel tronco vien su pian piano la testa di un serpentone verde e nero che poi si snoda fuori e sarà stato lungo un paio di metri. E alzandomi in punta di piedi riesco a scorgere che dietro allo stesso tronco ce n'è un altro, tutto arrotolato e forse dormiente. Il rettilone striscia verso il centro della vasca e si erge su verso la bestiola, che a questo punto l'uomo lascia cadere e poi si volta e se ne va. Il piccolo topo non corre più su e giù, fissa terrorizzato e prèsago, restando immobile, chi sta per divorarlo e che per ora si limita a saettare fuori la sua linguetta bifida a bocca chiusa ed occhi ipnotizzanti; poi di colpo manda in avanti la parte centrale del suo lungo corpo, lo colpisce stordendolo e lo avvolge stretto. Schizza sangue. E io, che ero rimasto fin qui paralizzato dall'orrore, mi scuoto, giro di corsa l'angolo dell'edificio e imbocco la porta del negozio con gli occhi di fuori e urlando.
Non ricordo cosa esattamente ho detto a quell'uomo, che era il titolare del negozio e stava davanti a uno scatolone con dentro un'altra ventina di quei topini, forse in procinto di prenderne un altro da scaraventare in vetrina come pasto vivo di serpenti. Ma il sugo del mio gridare era questo: che per fortuna non avevo per mano con me il mio nipotino, che certamente davanti a quella vetrina avrebbe voluto fermarsi, e cui era stato così fortunatamente risparmiato un tale spettacolo che l'avrebbe certamente scosso fino a sognarselo orribilmente per molte notti di seguito. Ma che altri bambini avrebbero potuto passare davanti alla vetrina e assistere a questo tremendo teatrino granguignolesco esposto a tutti. E che in sostanza si vergognasse. Lui mi rispondeva tranquillo: «Sa, se non glieli dò vivi li rifiutano, e se mi muoiono di fame io ci rimetto i soldi che ci ho investito per poi venderli». «Ma chi è quel disgraziato che glieli compra - replicavo io - uno zoo?». «Ma no, ci sono tanti privati a cui piace averli e sfoggiarli sottovetro in casa.... ». E io, sempre più esaperato: «E che sono i serpentoni, status symbol?», pur leggendogli negli occhi che non capiva cosa stessi dicendo. E poi proruppi: «Lei queste cose non può permettersi di farle in una vetrina che dà sulla strada perché ora io vado al commissariato e la denuncio per maltrattamenti e pubblica oscenità. E poi mi dica quanto costano 'sti poveri topolini che ha ancora qua, chè glieli compro tutti!». E questo senza neanche pensare a cosa ne avrei fatto e a dove li avrei messi. Però non avevo con me, realizzai, che pochi spiccioli e me ne corsi fuori sbattendo la porta.
Non ci sono andato, al commissariato, ma appena arrivato a casa e non avendo più un giornale mio ho scritto una «lettera al direttore» ad un altro, che me l'ha pubblicata riferendo in calce di avere informato la Finanza, la quale aveva risposto che aveva già intercettato altre volte in aeroporto l'introduzione illegale di animali esotici e di specie protette, sequestrandole e comminando sanzioni pecuniarie, e che avrebbe, data la segnalazione, intensificato i controlli. Da quella volta, pur soddisfatto, ho sempre evitato di ripassare da quella strada. Che insomma i serpenti restino nelle savane e nelle foreste in cui sono nati, dunque, perché non dev'essere neanche per loro un bel vivere sigillati in pochi metri quadri vetrati nel sontuoso appartamento di un boss o di un altro presunto rispettabile cittadino danaroso in giacca e cravatta che manda la moglie o la cameriera a far la spesa di topolini vivi per nutrire quell'ospite squamoso di cui si compiace o pensa gli conferisca chissà qual prestigio.
C'è una distinzione da fare - credo di averlo già notato un'altra volta - fra comunicazione di massa e fenomeni di massa. Perché è certamente un fenomeno di massa il rapporto con animali di casa, cani e gatti in primis, ma anche uccellini e, dove ci sono bimbi, pure tartarughine e coniglietti. Ma nulla di tuttociò configura invece comunicazione di massa poiché fra uomo e animale casalingo la comunicazione è sempre solo fra individui singoli o di piccolo gruppo. Il che non toglie comunque essa sia un fenomeno sociale di grande interesse. L'uomo che parla al suo cane, il cane che scodinzola uggiolando alla persona con cui vive, ed estendiamolo pure al gatto, il quale tuttavia da accompagnatore al passeggio non lo fa, rendono tuttavia annullato il concetto di padrone dell'animale, perché non più di padrone e suddito si tratta, bensì di due (o più) amici.
E intanto c'è anche un'altra faccia della medaglia da considerare e non si può ahimè fare a meno di farlo: avere animali per amici non può far dimenticare che altri animali, e in quale quantità, e a qual livello di indispensabilità, poi, sono invece il nostro cibo quotidiano (l'uomo vegetariano costituisce, come si sa, minoranza). Senza animali da mangiare avremmo grandi difficoltà a sopravvivere. Il nostro rapporto con loro non è certo comunicazione, dato che il messaggio fondamentale da noi loro rivolto, tranne che nei momenti in cui li nutriamo, è quello finalizzato a morte. Non permetteremmo mai loro di giungere a vecchiaia, e perché se no li alleveremmo? E non con amore bensì con cupidigia e pregustazione, che sono ben altra cosa. Ma questo non confligge con quanto detto sin qui sulla comunicazione umani/animali: un micio non è uno sgombro, la coppia di pappagallini non è una coppia di tordi. Ma chi ti conosce, da viva, signora sardina? Ma che vuoi da me, bella quaglia che mi svolazzi davanti? Confligge invece con altro, e proprio proprio cioè con la crudeltà da me rimproverata all'uomo dei serpenti. Crudeltà che non è, come nel suo caso, diventata spettacolo, ma di un altro tipo e di cui siamo complici tutti, e che tutti accuratamente rimuoviamo con un'alzata di spalle. Poiché lo stomaco finisce per prevalere, e come, sui sentimenti; razza di cinici che siamo. Giù la maschera, dunque, una volta che accettiamo tutti, facendo finta di niente, il modo in cui trasformiamo dei viventi in nostro companatico infliggendo loro una sofferenza priva di analgesici, e alla quale preferiamo non pensare per non guastarci a tavola l'andar giù dei bocconi.
Memento duque anche questo: noi siamo quelli che, considerandolo fatale e ineluttabile, postiamo tagliole dentate ai conigli e alle lepri, cuociamo vivi perché se no non suon buoni le aragoste e i granchi, spariamo a pallettoni su fagiani e caprioli, sgozziamo il maiale urlante a testa in giù perché il sangue deve scorrere via tutto prima per poter poi "trattare" il resto, fiociniamo le balene e arpioniamo ferocemente i tonni nelle mattanze, tiriamo il collo ai polli evitando almeno in questo caso la cruenza, per manzi e vitelli c'è il "colpo alla nuca" con una pistola elettrica, i pesci piccoli, rete o amo che sia, li facciamo crepare asfissiati. Non so se ho dimenticato qualcosa in questo elenco di atrocità, ma come farne a meno se non voglio passare per ipocrita?