Io di solito i TG li guardo la sera, la mattina ascolto i GR. Ma l'altro giorno, eccezionalmente, sono capitato su «Uno Mattina», il primo telegiornale della giornata di RAI 1. E all'accendere mi trovo davanti Neliana Terzigni, inviata al Cairo, che - guance rosse e volto smosso che faceva ondeggiare i capelli - strilla nel microfono che impugna davanti alla telecamera una cosa che avrebbe fatto certo cader svenuta mia nonna (non prima di un fulmineo segno della croce) e ferita e offesa la sensibilità di mia madre ma che - devo dire - così ex abrupto ha sbigottito abbastanza pure me. Del tutto impreparato com'ero a sentirmi rovesciar nelle orecchie da parte della compassata rete ammiraglia della televisione nazionale una frase così... Ma che frase insomma, dato che ho già a lungo eluso con cattiveria di suspence la famosa regola delle cinque canoniche “w“? Ecco, pervengo finalmente a dirlo e spero sia oggetto di assoluzione, oltre la spontaneità della collega, anche la dovuta testualità di questa mia citazione; il grido della giornalista era: «Giù le mani dalle nostre fighe!». Bicchiere d'acqua, riaversi, e poi domandarsi come ciò fosse possibile, a cosa si riferisse, e se non fosse per caso stato un audio imperfetto a causare qualche stravolgimento acustico nel televisore.

Bisogna dire, ho capito subito dopo, che la povera Neliana stava facendo semplicemente e bene il suo mestiere. Stava riferendo di un convegno in corso nella capitale egiziana sull'atroce pratica dell'infibulazione femminile e stava semplicemente traducendo quel che dietro a lei una platea di centinaia di donne in piedi nella sala stava gridando chi in arabo, chi in swahili, chi in francese o inglese, agitando in alto chi le braccia e chi cartelli. Avrebbe potuto scegliere un termine più scientificamente asettico? Usare una più gentile “c“ al posto di quella ruvida “g“? Probabilmente non ha fatto invece che riprodurre con esattezza l'agitata calorosità e la giusta violenza verbale con cui quella somma di voci si stava esprimendo. C'era una volta un elenco di parole che in onda non potevano assolutamente andare, e faceva pure sorridere che fosse severamente vietato dire «membro» (di una commissione, di un consiglio) e si dovesse dire invece e solo «componente». E viene proprio da tal genere di preoccupazioni pudicissime, a proposito p. es. di retate della Buoncostume o d'episodi vari di mercimonio carnale, la sostituzione del vaghissimo nome, e quasi poeticamente dolce, di «lucciole» alla comune dizione così fuori bon ton di «puttane da marciapiede». Con ovvia ridicoltà di risultato. Qualunque fosse, ad ogni modo, la fonìa swahili o sahariana atta a indicare quella parte del corpo femminile, alla giornalista toccava certamente di esprimersi in un italiano altrettanto schietto ed icastico se voleva che il clima di quella sessione del convegno arrivasse a noi - com'era suo compito - con la temperie reale che aveva.

Sono state così infrante delle regole? Pazienza, vuol dire che erano ipocrite. S'è offeso qualche timpano? Il mio s'era offeso di più sentendo in un comizio della Lega bossiana autorevolmente affermare che la bandiera italiana è buona solo per pulircisi (l'ha detto lui, lo devo riferire papale papale io) il culo. Siamo seri: se c'è, tornando alla fattispecie, qualcosa per cui indignarsi è il fatto che non solo in aree afrotribali e di fondamentalismo islamico ma anche in enclaves europee ancor oggi ci siano 160milioni di donne che han subìto clitoridectomìa, e gran parte di esse pure successiva chiusura con ago e filo di un orifizio vaginale più avanti cruentemente riapribile esclusivamente a consumazione di regolare matrimonio. Indignarsi, invece, di fronte a un modo giustamente crudo di denunciare un'oltraggio così atrocemente irreversibile al fisico, alla psiche ed alla dignità della persona umana di sesso femminile non dovrebbe appartenerci per nulla. L'animosità in quei termini trasmessaci quella mattina dall'inviata del TG 1 mi pare dunque pienamente legittima. Da tempo cinema e magazines di hanno abituato a ben altro, sul piano dell'eloquio e dell'immagine, senza per contro, quasi sempre, legittimazione alcuna in fatto di gusto e coltivando invece sollecitazione di prurigine. E la stessa correntezza salottiera con cui si ostenta disinibizione terminologica in campo sessuale, così come si fa candidamente sfrontato sin dall'adolescenza il linguaggio giovanile, altro non sono che scorie linguistiche di un processo concettuale di disinnesco dei tabù.

Non so che conseguenze avrà questo sdoganamento televisivo di un vocabolo la cui esuberante valenza anatomica lo faceva considerare precluso all'impiego in quella sede giornalistica fino all'altra mattina. Ma credo sia il caso di richiamare un precedente analogo di sdoganamento mediatico di una parola altrettanto imbarazzante, che risale agli anni Settanta e che ha avuto a protagonista quel poeta gentile che fu Cesare Zavattini. Egli teneva una rubrica radiofonica in diretta, e il giorno della sua ultima puntata - attaccare le ipocrisìe mondane era stato un suo tema ricorrente - verso la fine dichiarò: «E adesso dirò una parola che finora alla radio non ha detto mai nessuno: ...» qui una lunga pausa di sospensione, e poi sussurrò soavemente «...cazzo». Va bene, fu scandalo. Ma si può star sicuri che lo stesso Zavattini non avrebbe mai pensato, allora, che quel vocabolo sino a quel momento solo scritto col gesso sui muri dei gabinetti, usato pubblicamente solo da scaricatori portuali ubriachi e per il resto soltanto privatamente affiorante su labbra spregiudicate di ceto più alto, sarebbe a breve termine diventato la più usuale delle interiezioni, intercalare onnivalente, sottolineatura fonetica di qualsivoglia concetto. Con emissione primariamente maschile ma poi estesasi; sì che oggi anche in campo femminile è ormai meno diffuso che si senta dire invece, come prima, «testa di rapa» o «che diavolo vuoi?». Colpa dell'autore di «Totò il buono»? Può essere, ma non so. Quel che è storicamente certo è che fu lui a decidere che era ora, in merito, di rompere il ghiaccio al livello più elevato.

Fra queste due "prime volte" in audio massmediatico di espressioni facenti da rispettivo logo ai due sessi, una differenza comunque c'è. Tanto voluta a freddo quella di trent'anni fa, quanto sicuramente estemporanea quella dell'altro giorno. In quest'ultima non c'è calcolo, l'altra era progettuale, ma dopo che si sia stabilita questa differenza il semiologo dell'uso non potrà che classificarle egualmente, allo stesso modo. Una volta che parole così smettono d'essere riposto lemma di dizionario o accucciate in qualche pagina di romanzo ed escono, stufe, alla luce del sole, chi impedirà più loro normalizzazione? Noi ginnasiali ora di pelo bianco ci turbavamo molto scoprendo già nell'Alighieri dell'«Inferno» quel termine ora fatto esplodere dalla Terzigni dal convegno del Cairo. Ma, appunto, stava defilato lì. Oggi si potrà affermare, anche di quello, che: «L'ha detto la televisione». E si sa cosa ciò significa.

E' come quando si leva un tappo. Ciò che era sotto sigillo diventa abbeverante. Avete presente l'aggettivo «coeso»? Oggi è coeso tutto, in politica, da noi: schieramenti parlamentari, programmi di governo, iniziative popolari. Chi l'abbia detto per primo («questa è una linea coesa», «noi siamo tutti coesi») è cosa che ci sfugge, ma è stato più contagioso del morbillo: fateci caso, nelle dichiarazioni sboccianti di TG in TG. Dilaga come un'alluvione. Non è un participio, perché non ha verbo da cui provenire. Nasce infatti da un sostantivo (coesione) prelevato in origine nientemeno che dalla chimica molecolare. Mica si trova, ancora, nei vocabolari anche recenti, che arrivano al massimo a «coesivo». Ma coesivo indica potenzialità, si riferisce a qualcosa in corso, coeso invece è un dato, esprime cosa già avvenuta, in atto. Scommettiamo che non manca molto a che qualche genio inventi anche il verbo «coedere», quello che ancora manca a completare la famiglia, dato che all'avverbio «coesamente» già ci siamo? («Su, compagni, cerchiamo di coedere...»). Ci vorrebbe che tornasse in vita Luciano Bianciardi, mannaggia, autore di un bestseller d'epoca sul linguaggio politico della sinistra italiana che si chiamava «Il lavoro culturale».

Certe parole, ma vale pure per quelle altre due bisillabe di cui parlavamo prima, si affermano anche per il loro suono, per gli accenti vocalici, per le consonanti incardinate che le pilastrano. Guardate la forma assunta dalla bocca, percepite come si marca il timbro della voce, quando uno dice «coeso/a» in tv o in radio. E quando le adoperi, le adoperi e le adoperi finiscono per non essere neanche più rimando a immagine ma proprio suono puro; si smaterializzano, per così dire, e diventano mera decorazione della frase. Non per Zavattini, naturalmente, ma per chi fa prezzemolo oggi di quella sua parola lì, sì. Quanto all'altra, quella da cui ero partito, bòh, chi vivrà vedrà.