Se cercate il Postmoderno in Web non ci trovate solo questa rubrica che scrivo da tre anni ma anche tutti i motivi per cui essa esiste. Digitare questa parola in un motore di ricerca come «Google» significa scoprire che ci sono in Internet ben 68.400 (sessantottomilaquattrocento) siti consultabili ad essa intestati, tutti gremiti di documentazione, eventi, riferimenti e saggistica; e con ventaglio spiegatissimo di campi. In un'enciclopedia le chiameremmo «voci», ma tra voci e siti il termine più adatto da usare è, credo, nodi. Perché è appunto un nodo, ciascuna di queste innumerevoli trovate finestre, che si aprono tutte, senza che se ne veda fine, su altri relativi approfondimenti ed altre relative contiguità. Temo non basterebbe per ispezionarne neanche un decimo, e pure assai meno, e digerirne contenuti e rimandi, il tempo di cui effettivamente ancora dispongo per navigare nei prossimi anni. Perché Internet è pure questo: che se gli chiedi una cosa ti può talmente alluvionare, su quell'oggetto, che ci puoi anche naufragare dentro senza recuperare mai proprio tutto tutto di quel che t'interessa o che puoi assimilare. C'è una di queste superstar del nudo osé, per citare un caso-limite, la digitazione del cui nome ti fa scoprire come costei disponga mondialmente in rete di quasi un milione e mezzo di siti (e anche codesto è certamente elemento compositivo del postmoderno) nei quali - ma naturalmente quasi tutti a pagamento, questi - divaricare da sola o in compagnia le proprie cosce. Così come per contro, se cerchi «alabarde: immagini» (l'ho fatto ieri io per motivi miei), di pagine ne trovi soltanto tre. La pur molto estetica foggia di queste antiche armi interessa, come si vede ben chiaro, assai meno gente che non la conformazione vaginale di quella signora... Quel che mi fa comunque e a parte tutto rallegrare è che in questo elenco di 68.400 siti, in ordine non alfabetico ma elettronicamente casual, la rubrica «Secolo Postmoderno» che state leggendo si evidenzia subito: perché è stabilmente collocata al terzo posto di questa sterminata fila, e con tutto l'intero indice dei suoi finora 143 titoli. Fosse stata al decimillesimo non avrei mai, naturalmente, potuto accorgermene - unico modo sarebbe stato un interminabile scrolling - né, quindi, gustosamente segnalarlo. Comunque, è per me piacevole chi cerchi di postmodernità in Internet sia dunque subito a colpo in questa serie di mie esternate riflessioni sul tema, anche se immeritevolmente, che si imbatta.
Ma è naturalmente ben altro, guardandomi cioè dal cadere in narcisistiche soddisfazioni del cavolo, in cui intendo ora al suo proposito addentrarmi. Avevo infatti a suo tempo scelto questo titolo proprio nella convinzione di usare un vocabolo il quale fosse appieno definitorio dei problemi e anche dei nòccioli filosofici che, impastati di novità scioccanti, di superficialità onnidirezionali, di angosce stressanti, di entusiasmi effimeri, di contraddizioni d'ogni genere, caratterizzano fin troppo diffusamente il presente comunicativo che viviamo. Senza più sufficiente senso della storia restrostante e senza più stelle polari davanti capaci di guidarci come si deve. Il presente, cioè, e impropriamente, come unico a contare, come dimensione assoluta escludente le altre. (Nell'emarginazione dei pochi che di tutto questo, invece, giustamente e responsabilmente si disperano). E ciò a valere per le idee e per i linguaggi, per le regole dell'economia e per quelle della politica, per i comportamenti umani nella società e per gli obiettivi delle scienze e delle tecniche applicate, per il rapporto stesso - e come proprio vitalmente non ne dipendessimo - con la natura e gli ecosistemi del pianeta, ed i criteri persino dell'alimentazione nostra e dei nostri figli. Il Postmoderno insomma come nuova creatività e come nuova negligenza insieme, colmo di pericoli trascurati ma risonante anche di acutissimi quanto poco ascoltati gridi di allarme.
Anche se non, allora, in modo così tanto drammatico come ne è montata maggior necessità adesso, erano proprio questi i connotati che per questa rubrica annunciavo nella sua puntata numero 1 (l'appuntamento settimanale di oggi ha, ricordo, e non è poco, il numero 144). Post è qualcosa che viene «dopo». E dopo cosa, nella fattispecie? Dopo il Moderno, appunto. Giuseppe Petronio, già prestigioso preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Trieste e poi responsabile dell'Istituto Gramsci, parafrasò così, aprendo un convegno sul Postmoderno da lui organizzato alla fine degli anni '90, il famoso inizio del «Manifesto» di Marx: «Uno spettro si aggira per il Pianeta: il Postmoderno», e lo definiva «uno spettro per davvero, questo, perchè cosa sia, forse, nessuno lo sa». Epperò quel convegno di ottima e provocatoria intuizione finì poi per definirlo abbastanza bene, come fenomeno almeno, se non come esatta perimetrazione storica. Ma la colpa è della stessa ambiguità cronologica appunto dell'èra che chiamiamo Moderna. Finisca come secondo alcuni con la Rivoluzione francese o secondo altri col Congresso di Vienna (ma siamo lì: fra quelle due date c'è solo Napoleone), dopo essere per universale convenzione iniziata trecent'anni prima con la scoperta dell'America, da quel momento in poi l'èra successiva (ehi, praticamente tutto il XIX e il XX secolo e questo primo scorcio del XXI, non si scherza), è stato chiamato e si chiama Evo Contemporaneo. Contemporaneo? Bel casino linguistico hanno combinato gli storici! E come se ne esce adesso? La "contemporaneità" dura per sempre, non smette mai d'esser tale, mica potremmo dire un giorno, appunto noi contemporanei o quei, sempre contemporanei, che ci succederanno: «Allora, da domani quel che accade non si chiama più Storia Contemporanea ma...». Dunque, nome sbagliato, nome da cancellare subito. E poi, andiamo, saremmo ancor oggi "contemporanei" di cosa? Della guerra anglo-boera? Dell'imperatrice della Cina Tzù-Shì? Secondo i fin troppo inerziali manuali di storia sì. Vedi che roba. Diciamolo, che era da correggere già da un sacco di tempo.
Ma se si son scritti libri e libri per capire da quand'è che è stato invece il Postmoderno a succedere a un Evo Moderno da prolungare almeno di un secolo abbondante (e non a quello Contemporaneo, nome espressivo di nulla, già abrogato dai fatti e per cui, stretto fra questi due qua, non c'è più posto). Dalla conferenza di Yalta e dalla distruzione tronca-guerra e tronca-tutto di Hiroshima e Nagasaki? Dalla rivolta generazionale del '68 in Europa e in America? Dal boom dell'astronautica che ha portato degli esseri umani a viaggiare nel vuoto dello spazio celeste? Dall'avvento dell'elettronica la quale sta cambiando la vita a tutto il mondo (eccezion fatta, naturalmente, per quello chiamato Terzo)? E se se ne sono scritti altrettanti per stabilire se questo turbinante Postmoderno sia l'estrema propaggine del Moderno, consistente cioè solo nei suoi colpi di coda, ovvero se ne sia al contrario la radicale negazione, rigettante uno per uno tutti quelli che ne erano stati i valori ed i tabù costituenti. Quel che è certo è che esso esiste proprio come etichetta conclamata dagli anni '70 del '900, assunto inizialmente come nome di corrente dagli architetti che prima in Europa e poi in America sperimentavano nuove forme e nuovi materiali. E che ha fondamenti epocali e filosofici da quando essi furono stabiliti nel pro e nel contro da Lyotard e da Jameson, da Baudrillard e da Habermas, da Derrida e da Vattimo (e andrebbe qui aggiunto anche un bel eccetera), investendo le strutture sociali e l'economia, l'arte e la politica. Tolto di mezzo il Contemporaneo, Postmoderno sta, come tutti i «post» fra i tempi: il Moderno che è stato e il Futuro (sconosciuto) che verrà.
Oggi le ideologie - questa è l'immagine che mi assale quotidianamente - sono una vasta platea di macerie fra le quali si cercano materiali e pezzi di risulta per costruzioni nuove, come già una volta dalle pietre di antiche basiliche si cavavano quelle da servire a costruire altri e in tutto difformi palazzi. Il Postmoderno, essendo epoca storica con le sue ragioni e prodotto di logiche parte cinicamente pragmatiche e parte vivacemente creative, costituisce anch'esso ciclo e anch'esso dunque si estinguerà senza che sia possibile valutare adesso quali saranno le direzioni di proseguimento e le modalità di svolta e di subentro. Perché esso pone oggi - va riflettuto a fondo su questo - probabilmente soprattutto un problema di valenza etica. Contiene infatti la biogenetica e la clonazione, il femminismo in una varietà di accezioni e la fine del primato eterosessuale, nuovi fondamentalismi a base religiosa e la degenerazione persino dello sport, la globalizzazione economica e culturale e l'innovazione dei linguaggi e dei vettori comunicativi, la destrutturazione della famiglia come istituto e il dilagante mondo cyborg, la crisi delle democrazie e nuovi atroci modi di fare le guerre, il potere che si aggancia disinvoltamente alle leggi del mercato, la politica stessa che sfigurandosi si declassa da confronto a negoziato, l'istruzione scolastica di ogni livello che cede cattedra alla televisione e alla pubblicità.
Quando, dandosi all'estemporaneo, si perdono forme di pensiero funzionalmente analitiche basate su precedenti e contesti ignorandone le fonti (Raffaele Simone: «La Terza fase»), quando prevale la frammentazione delle opinioni perché l'esperienza viene, come dire, destoricizzata, quando il progresso cessa d'essere linearmente ascendente ma diventa labirintico e involve su se stesso e come orizzonte storico si ha solo il Presente, in cui anche il denaro assume valori nuovi e nuove virtualità, non resta probabilmente che ridescrivere tutto usando altre lingue e basandosi su altri tipi di emozioni. E alludo all'arte, con ciò: che facendosi new art anch'essa può forse avere quelle possibilità rigeneranti e quella forza comunicativa non rozza tanto difficili da trovare negli altri comparti oggi come oggi. Che quadro, vero? Ma è un quadro che è ben arduo poter contraddire, e che pone problemi esistenziali serissimi alle generazioni più giovani le quali già confusamente percepiscono il precariato che le attende e che le affliggerà. Nella sua ricerca di strade diverse, il Postmoderno è fortunatamente anche critico verso le molte sclerosità del passato ancora immanenti e insieme anche armato di fantasia, che è sempre stata il più potente degli anticorpi. Esso è dunque nonostante tutto bifronte e abbiamo ancora dei margini, anche se esigui, per poterlo indirizzare non certo verso paradisi ma verso i danni minori. Mai come adesso è attuale il gramsciano abbinamento del «pessimismo della ragione ed ottimismo della volontà».
Stanno anche sparendo le concezioni, se non nella scienza nella prassi politica, di cos'è «destra» e cos'è «sinistra» tendendo entrambe, come paurose delle proprie rispettive storiche e filosofiche ragioni, a un «centro» il quale per sua stessa intrinseca natura non può che aver fisionomia di immobilistica panne delle idee, alla quale sian concesse solo oscillazioni impercettibili ed incapaci di diventar motrici se non in direzioni di retromarcia. Culturalmente figli come siamo, da seimila anni in qua, della scrittura (sulla quale s'era sempre basato, sin qui, ogni singolo passo delle scienze umane) stiamo pervenendo, con l'odierno polimorfismo della comunicazione, a nuotare dove non si tocca, costretti di fatto a un ritorno alle forme orali ed iconiche, la cui deformante e pericolosa insufficienza non ci vuol molto a che, toltale la maschera, sia rivelata: dato che l'immediatezza non potrà mai sostituire lo spessore della comunicazione.
La massificazione dei consumi e la spinta ad essi ha fatto diverntar consumo anche la cultura, come se essa fosse qualcosa da poter divenire incurante del proprio livello e della propria individualità, mentre lo stesso cibo viene ridotto dalle multinazionali e dai MacDonald's merce da catena industriale facendosi malsano. Le tecniche di riproduzione sono ormai tanto perfette ed estese da far del tutto scadere il concetto di "originale" e questo finisce per valere non solo in sede artistica o artigianale ma arriva a pervadere pure la sfera dei rapporti sessuali (uomini-copia e donne-copia), come una forma di progrediente disumanizzazione. E la stessa salute generale è a rischio per la noncuranza con cui si guarda all'inquinamento atmosferico e delle acque, per l'eccessivamente troppo tempo cui si permette a infanzia e adolescenza di star sedute davanti a un rettangolo di vetro entro il quale si muovono figure colorate atrofizzanti neuroni con l'esaltazione dell'immaginario e muscoli con la scoliosi, e indebolendo rètine con gioia degli occhialai, le quali insegnano realtà virtuali capaci di essere poi completamente disarmanti quando verrà lo scontro col reale che intanto mica cessa d'esistere.
Anche nel Postmoderno scoccano comunque scintille culturali e insieme critiche che non tutti riescono a cogliere ed interpretare. Da Borges come premessa a Garcìa Marquez, Calvino, Eco in letteratura, a Warhol e al pop-design nelle arti figurative, a Tarantino o Kusturica in cinematografìa, al reggae di Bob Marley e a tutte le musiche etniche di lontanissime e diverse radici ma piombanti come eruzioni inattese e condivisibili fra noi occidentali. A molti intanto sembra di vivere, per contro, in un immenso Luna-Park, i cui luccicanti poli (Disneyland, Las Vegas, quella stessa struttura che in Italia ha preso l'ironico nome di Casa delle Libertà ma cui si contrappongono solo partiti dai nomi, mascheranti e frastornanti, timorosamente presi dal mondo vegetale) sembrano così diversi uno dall'altro ma obbediscono invece a un medesimo insieme concettuale che è al tempo stesso coccolante ed espropriante, ipnosi e business. L'ultimo alfiere di idealismo definibile moderno si chiamava Ernesto Guevara, ma rispetto al suo tentativo ingenuo come quello di un Pisacane di portare la democrazia in Bolivia, è sicuramente postmoderno (nella fattispecie cioè qualcosa che si presenta come essere qualcos'altro) il cinismo anche veterocoloniale con cui asserendo di portare la democrazia in Iraq lo si è invece trasformato in un immenso e reciproco mattatoio che può infettare altre vastissime aree. E' proprio un altro non trascurabile connotato del Postmoderno quello d'essere gioco di specchi, circo senza rete, caleidoscopio mobilissimo ed obnubilante. In qualche caso anche prestidigitazione. Non è difficile trovarvi tutto e il contrario di tutto, Madre Teresa di Calcutta e Bill Gates. Spinte fantascientifiche (conquistiamo Marte e le lune di Saturno?) e rigurgiti medievali (il precariato del lavoro come forma aggiornata di servitù). E intanto scopriamo - mentre c'è chi si fa lavaggio di coscienza cercando d'indurci a non fumar tabacco - che camminare impunemente in città dalle strade gremite di motori a scoppio ci riespone alle malattie dei minatori che estraevano carbone o zolfo o dei linotipisti che respiravano vapori di piombo fuso.
L'ultimo libro che ho comprato e sto leggendo si chiama apocalitticamente «Il secolo finale». Edito da Mondadori, ha in copertina il famoso disegno di Leonardo che raffigura quell'uomo ignudo a otto arti iscritto in un cerchio (c'è anche sulle nostre monete da un euro), ma è sbarrato sopra da due rosse pennellate a X. L'ha scritto uno scienziato di fama internazionale come Martin Rees, astrofisico di Cambridge capace di vedere in avanti assai meglio di un leader politico e di un sociologo emerito. Ve ne dico solo il sottotitolo: «Perché l'umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni», e non credo che occorrano altre citazioni, essendo già chiaro come oggi sia l'Uomo a minacciare la Terra e non più viceversa. Credo comunque che siamo parecchi a non voler farci complici del che il Secolo Postmoderno sia davvero l'ultimo della storia umana. Bene, allora, ragazzi, siamo nelle vostre mani. Fornirete generazionalmente voi la classe dirigente che ci sostituirà. La generazione dei vostri padri ha già complessivamente fallito, per non aver saputo - a differenza di quella dei vostri nonni - reagire e combattere abbastanza. Tenetevi forte, datevi una mossa e conferiteci speranza.