Mi sono molte volte, in questa sede, soffermato a includere nella categoria della COMUNICAZIONE DI MASSA tutta una varietà fenomenica di messaggi che per solito in quell'àmbito non viene considerata ma che invece così classificabile certamente anch'essa lo è. Da quelli che appartengono ai diversi linguaggi dello spettacolo a segnaletiche corporee come, per dire, il piercing, e come del resto tuttociò che da una fonte lancia segnali i quali sono diretti erga omnes, e quindi a vastissimo raggio «circolari». Con delle avvertenze limitative, comunque. Ad esempio non basta che un messaggio venga inserito in Web perché, nonstante il potenziale quasi infinito che questo medium possiede, esso "comunichi" a un bacino considerabile di massa. Ce ne sono, di messaggi internetici raccolti solo da quattro gatti e spesso anche solo a quattro gatti in partenza destinati. E oggi dunque dedicherò qualche osservazione al campo inverso, non cioè per includere tematiche e vettori ritenuti insoliti in quell'area ma procedendo ad escludendum da essa.

Il discorso nasce ancora una volta da una tesi di laurea. Propostami appunto in Teoria e Tecniche della Comunicazione di Massa, la materia che attualmente continuo a insegnare a Trieste (mentre a Palermo da quest'anno non faccio più aula ma insegno in FAD linguaggio giornalistico e radiotelevisivo) e con riferimento alla quale ne ho accettate di aventi per oggetto forme di comunicazione in vario modo supportate: attraverso il cibo, gli indumenti, gli odori, un fatto cult... Spiegherò infatti adesso perché una, nonostante davvero assai interessante sotto il profilo tematico, l'ho per correttezza relativa a tale disciplina declinata, anche se con dispiacere. E lo faccio per un motivo solo: per continuare cioè a fornire ai miei studenti, attraverso questa esemplificazione, criteri sui paletti tematici che di questa materia debbano razionalmente perimetrare l'area. Vi rientra come costume il fumar tabacco, per dire, e tutti i messaggi che ciò contiene, e vi rientra ahimè persino il porno; non vi rientrano invece, come oggetto di cui sto per parlare - salva la Commedia dell'Arte e, per affinità, qualche altro modo teatrale -, le maschere. Non vi può cioè rientrare ogni tipo esistente di maschera.

La Commedia dell'Arte perché sì? Per l'universale esposizione di caratteri che ad essa corrisponde. La maschera nera a tuttovolto e sogghignante di Arlecchino o quella bruna oppure rossastra e dal naso adunco di Pantalone, completata da un pizzo che si arcua all'insù, così come quella anch'essa nera e beffarda di Pulcinella o quella analoga ma in chiave triste di Pierrot - anche se d'altre e assimilabili tradizioni queste due ultime - e che si prolungano tutte anche nell'abito, sono altrettante rappresentazioni ben decodificabili da tutti noi per intriseca e da lungi tramandata consuetudine. Non lasciano equivoco su scala direi pressoché mondiale all'identi-kit di messaggio del quale sono ciascuna ostentate portatrici. La duttile astuzia del primo, l'avarizia mercantile del secondo, la filosofica allegria con cui il terzo affronta la sopravvivenza, il melanconico sentimentalismo del quarto, sono sì patrimonio comunicativo secolarmente offerto a una comprensibilità praticamente universale. E questo estensivamente si può dire anche per gli identificatorii mascheroni tragici e comici del teatro greco classico o per il kabuki estremorientale di varia articolazione il quale mostra già nei tratti di ciascun dipinto sovrapposto al viso chi quel personaggio sia e che cosa voglia e come si comporterà.

Ma per il resto delle maschere, servano per una festa o per una rapina, o anche solo per ogni sorta d'appuntamento ambiguo, assolutamente no. E per due motivi. Il primo è per ciò stesso che la maschera medesimamente è. Che sia per allegria e/o galanteria o per delitto, oppure nient'altro che per prudenza o per vergogna, o per necessità di segreto, la maschera trasforma, la maschera nasconde, la maschera mente, e «smascherare» vuol dire raggiungere la verità celata. E il secondo è che "maschera" non consiste solo in cartapesta o pelle conciata, variamente e metaforicamente modellate e pitturate, da sovrapporre ai propri lineamenti; nè nella succinta seta con fori per gli occhi con cui cavalieri e dame del Settecento, ma anche Zorro o l'Uomo Mascherato (The Phantom dei fumetti di Lee Falk) lasciavano simbolicamente tra il sì e il no le proprie fattezze, ma è anche ogni altro modo di coprirsi verso gli altri ad uno scopo. Sono maschera sia i nomignoli che l'anonimato, è maschera spesso il comportamento e possono essere maschera le parole. E' maschera, alla fine («l'abito non fa il monaco»), tuttociò che rispetto a qualcosa si mantiene sviante o resta appositamente indefinito. E' maschera la personalità fittizia del fu Mattia Pascal e lo è anche, oggi, un avatar o un nick-name. Ecco, siamo arrivati al punto e adesso spiego il concetto da cui ero partito.

L'opera di Pirandello è ricca di maschere entro le quali i personaggi tendono a calarsi così come vi si può adesso calare nei MUD (giuochi di ruolo elettronici) e - diffusissimamente - nel sempre più vasto mondo delle chat-lines. E la tesi propostami per questa laurea verteva proprio su ciò: la spinta a mascherarsi, dal campionario di personaggi del drammaturgo agrigentino fino agli odierni chattanti dietro allo schermo di un nick che spesso nasconde anche sesso ed età. La maschera cioè come bisogno umano. (Che può venire sia da timidezza che da calcolo, o da subdolità strumentale o anche solo protettivamente fine a se stessa). Bene, perché ho risposto di no, tirandomi indietro da qualcosa di tuttavia così straordinariamente interessante? Perché ho un concetto preciso di ciò che la mia materia è e dalla quale non mi è dato di sconfinare (a differenza dei coinvolgimenti per contiguità o comparazione effettuabili nel corso di una lezione) quando di formale istituto accademico, come una tesi di laurea è, si tratti. C'è una distinzione nettissima infatti fra ciò che è comunicazione di massa e ciò che invece è fenomeno di massa. La letteratura e il teatro sono certamente dei media, e anche, per vasta casistica, classificabili pur essi come di massa. Così come un medium coprente addirittura il pianeta in modo stabile è il Web, che però (studiosi come Olini e Somalvico ce ne han fatto ben accertare) supera la comunicazione di massa e se la lascia alle spalle sostituendola con una comunicazione di tipo, al contrario, "reticolare". Interattiva e intrecciabile, ma sempre da "da punto a punto", di fatto, e con percorsi anche fortuiti.

Chattare, per fenomeno di massa che sia diventato, è e rimane un fenomeno duale (che tale resta anche se la dualità può essere consecutiva) o al massimo intersecante piccoli gruppi. E spinto per lo più in direzione di una conoscenza interrogativa la quale tende a raggiungere uno stato di intimità, anche se spesso solo precaria. Il concetto preciso che ho, come dicevo, di «comunicazione di massa», e che comunque ineludibilmente la caratterizza, è quello di essere invece "circolare" e raggiungente vasto target a partire da una fonte. La chat, intendiamoci, può essere anche praticata allo scoperto - lo faccio pure io - come un «passo-e-chiudo» che rappresenta un'acquisita forma tecnologica di corrispondenza. Ma costituisce, appunto, un'evoluzione di ben altra tipologìa mediatica, che può in tutti questi casi anche restare anonima o falsificare mittenza: l'epistolario, la telefonìa, la radioamatorietà, la e-mail (così come i SMS rimpiazzano i telegrammi; e sotto un certo aspetto per ristrettezza di display lo sono linguisticamente ancora, sia pure con altri codici). Non si può dunque cadere in confusione.

Pirandello era un formidabile e molto acuto introspettore d'anime e di cervelli individualissimi. E la chat è una forma di comunicazione assolutamente interpersonale. Dunque compiere una ricerca che congiunga questi due poli, connettendo pagine stampate e new media, può certamente costituire ottima base per una tesi in Psicologia o in Antropologìa Culturale o anche in Sociologìa della Comunicazione. Ma non in Teoria e Tecniche della Comunicazione di Massa, perché di comunicazione di massa nella fattispecie proprio non si tratta. Resta sì un tema molto suggestivo, fondato com'è sulle maschere e cioè su qualcosa per cui, oltretutto, ho animo di collezionista avendomi la loro essenza e il loro simbolistico design spesso surreale, che è anche specchio di culture, sempre affascinato come affascinano insieme la manualità creativa dell'arte, la psiche in grado com'è anche di sdoppiarsi, e i loro congiunti misteri. Ma esistono anche delle ripartizioni di ricerca e di studio che obbligano a rispetto dei campi di docenza pur restando intrigati, ed è il mio ovvio caso (se no non si può insegnare neanche una materia così più circoscritta), da inevitabili implicazioni psico-socio-antropologiche ed estetiche. Ed è con questi argomenti che da quello studente mi son fatto scusare del mio negarmi.

Se ora ne ho fatto oggetto di una di queste mie rubriche per «Ateneonline» è perché i loro stessi connotati generali e la loro natura non solo commentaria ma anche didattica m'han fornito occasione, che credo non disutile, per un'analisi probabilmente interessante un numero più ampio di studenti lettori. Dal campo di una cultura mediatica e di un'osservatorio sul postmoderno non mi pare insomma proprio che siamo usciti neanche stavolta.