Si è appena concluso a Messina (trasferitovi per ovvie ragioni da altra provincia siciliana) un processo al cui centro era lo stabilire, così come risultato, se nel corso delle indagini su un delitto, anzi due, vi fossero state omissioni da parte della Procura di competenza. E per accertare sia pure ormai inutilmente ciò (l'autore di quell'omicidio di cui restavano ignoti i mandanti era figlio, poi sottoposto a perizia psichiatrica, del presidente di quel diverso Tribunale, e la vittima un giornalista) sono trascorsi, povera nostra giustizia, nientemeno che trentadue anni, essendo avvenuto il fatto nel 1972. Ma non è la sola, e tutta italiana, anomalìa di questa vicenda. C'è anche l'incredibile dichiarazione fatta nel corso testè chiuso di tale procedimento da un magistrato. Sentito in ordine a ciò dal collegio giudicante messinese è stato il procuratore della Repubblica ragusano in quanto all'epoca era stato lui, allora giovane sostituto, ad occuparsi del caso. Ed egli ha dichiarato che sono stati «i giornali» ad aver - attenzione al termine - «causato» questo delitto in quanto «potevano scrivere quel che volevano». I giornali, quindi anche, o soprattutto, quello per cui quel cronista lavorava. Come se questi fosse stato proprio così e da questa matrice spinto, come dire, allo sbaraglio.

Su questo mi è stato chiesto da un periodico ragusano in versione online, («Accade in Sicilia») di intervenire con una mia dichiarazione per il ruolo che all'epoca ricoprivo a «L'Ora», di cui quel giornalista, Giovanni Spampinato, faceva parte. Cosa che ho subito e senza esitazioni fatto. Penso non si tratti di qualcosa di tematicamente estraneo a una rubrica come «Secolo Postmoderno», che di media si occupa, perché l'inaccettabile interpretazione d'essere un presunto eccesso mediatico appunto e specificamente la causa di quelle pallottole sparate costituisce indicatore talmente anomalo e deviante da meritare d'esservi inserita come esempio negativo di come possa essere considerato un ruolo di informazione alla comunità. Riproduco dunque di seguito questo testo così come è stato a mia firma pubblicato.

Una sera un giornalista viene ucciso a colpi di pistola si sa da chi, e anche perché, e dopo trent'anni spunta un magistrato di quella stessa città (Ragusa) a dichiarare che alla fin fine, di fatto, colpevole dell'evento sarebbe stato il giornale per cui quel cronista lavorava - il quotidiano "L'Ora" di Palermo - il quale si desume lo avrebbe... come si dice, in questi casi? istigato potrebbe essere il termine giusto? forse nella mente di quegli sì perché il codice a "istigazione a..." attribuisce valenza di reato. Ma io in modo convintamente corretto preferisco dire "sostenuto", come participio verbale più esatto, in un'inchiesta che egli conduceva su quel territorio lungo piste dove s'intrecciavano mafia e traffico d'armi. E anche le circostanze di un delitto precedente, sulla cui paternità stava facendo luce. Come se fosse stata futile avventatezza l'affrontare, lui e la sua testata, un tema come questo, gestito invece col massimo rigore professionale possibile. Così come molte altre inchieste di quel giornale - a ragion civile veduta - proprio su quel tipo di argomenti mirate.

Ma insomma, cosa stava facendo quel giornalista se non il mestiere che ai giornalisti appartiene? Cercare cioè di documentare e raccontare quel che la gente non sa e invece dovrebbe sapere su quanto di losco e delinquenziale accade fra le pieghe di una parte connivente di società. Non si tratta forse di indagini che costituiscono parallela ed anzi primaria competenza anche appunto delle Procure della Repubblica? Sarebbe come dire che è colpa dell'Antimafia se Falcone e Borsellino sono saltati in aria. Quel giornale ne ha avuto altri due, di cronisti uccisi, in quegli anni, e una bomba sopra la sua tipografia, e direttori che camminavano con la scorta di polizia. Avrebbe per questo dovuto fare inchieste solo sui prezzi delle melanzane al minuto o sugli amorazzi dei giocatori di calcio, sì che nessuno dei suoi redattori potesse trovarsi minacciato per quel che veniva scoprendo e annotando sul proprio taccuino? Ci sono, gli "inviati di guerra" anche oggi in vari posti del mondo, purtroppo, e anche noi de "L'Ora" inviati di guerra in un certo senso allora eravamo.

Devo dire che ho letto con sgomento quella incomprensibile e marziana, o peggio, dichiarazione profferita qualche giorno fa da un togato il quale dovrebbe saper meglio guidare la propria lingua. E che mi ha fatto ricordare quello dal cielo scuro in cui avevo pronunciato a nome de "L'Ora" il discorso funebre davanti alla bara del giornalista Giovanni Spampinato, onore a lui, il giorno del suo funerale. Non ricordo neanche con esattezza le parole che usai, parlando a braccio e con le lagrime agli occhi in quel cimitero, ma certo dissi quella volta anch'io qualcosa che era testimonianza di verità. E che il futuro poi avrebbe in vari modi confermato: che un professionista era stato assassinato sul campo perché qualcuno riteneva troppo inquietante il suo rimuovere di veli, e che il suo assassino s'avvantaggiava di coperture che non avrebbero né dovute esserci né essere tollerate.

Come appare ma proprio concettualmente inadatta al suo lavoro, una figura istituzionale di servitore dello Stato che sia capace di espressioni così.