Una gran perdita, la scomparsa l'anno scorso di Neil Postman, responsabile del Department of Culture and Communication della NewYork University, studioso di rilevanza internazionale in campo psicopedagogico e delle tecnologìe comunicative. Uno fra i molti degli oggetti più interessanti della sua analisi critica sono i criteri sempre più invalenti in àmbito didattico per la "valutazione degli apprendimenti". Ma cosa si valuta e come si valuta? Si dovrebbe valutare la personalità dello studente come livello qualitativo raggiunto nella sua metabolizzazione delle nozioni acquisite. Si dovrebbe farlo, e per lo più ancora lo si fa, a mezzo di un processo di analisi giudicante individualizzata da parte del docente sulla base d'un colloquio (il cui nome è "esame", termine che ha un significato preciso e non presuppone identiche domande e identico modo di porle per tutto l'universo dei candidati).

Accade intanto che si diffondano sempre più, e non solo in America, metodologìe standard basate su quizzistica e punteggi le quali dànno risultati aritmetici e fondano giudizi finali su numeri e percentuali computerizzabili. E' un po' strano - lo pensa Postman ("Ecologìa dei media", Armando Editore) e lo penso anch'io - che ci si accontenti di una modalità con la quale non si ottiene ciò che davvero interessa sapere a chi insegnamento impartisce (ed alla società in cui il soggetto andrà inserito), e con la quale si ottengono invece esiti meramente numerici, ove ciò che più interessa - cioè il corretto funzionamento dei meccanismi mentali e il particolare livello culturale raggiunto - appunto non risulta. E che possono invece corrispondere - è beninteso un esempio limite - ad analfabetismo culturale anche se apparentemente brillanti ma solo per mnemonismo e fortuna.

E' abbastanza chiaro, comunque, anche il perché di tale "stranezza". Da un lato è la stessa pressione tecnologica generale a incentivare la trasformazione in dati numerici anziché in casistica di tutto quel che si può, per dare maggiore maneggevolezza strumentale a qualunque insieme, che rimane però così molto superficiale. Si pensi solo all'introduzione dei CFU come unità di misura (1 credito formativo = 25 ore convenzionali di studio) dei saperi presuntamente immagazzinati in testa da uno studente. Cosa che se non vigesse non l'éra, anzi benvenuta, ma l'imperio, e questo invece non lo è, del computer, solo dei cervelli spiritosoni o mentecatti avrebbero saputo immaginare. Dall'altro lato invece c'è una spinta diversa, anche se nella stessa direzione. Il numero degli studenti aumenta e rende più difficile lo stargli dietro come singole entità umane invece che come semplici numeri di matricola, e se ne induce una certa pigrizia (ma il termine forse non è quello giusto: Postman la chiama comodità) che fa accettare anche da non piccola parte della docenza, oltre che della burocrazia, un sistema di valutazione dei profitti basato su criteri meccanici anziché dialogati.

Bèh, la somma di questi elementi produce una situazione abbastanza pericolosa, alla fine. Storcendo e appiattendo, insomma robotizzando, i criteri con cui si misurano le capacità personali, giungeranno un po' alla volta sul mercato delle professioni, specie di quelle un tempo classificate "umanistiche", generazioni anche dirigenti meno solidamente premiate nel tipo di applicazione e nella qualità degli stimoli e delle vocazioni. Ed è di ben altro tipo che non questo il Progresso (quello che merita la maiuscola) che tale enorme e importantissimo impulso tecnologico è chiamato, nell'interesse dell'umanità, a realizzare invece.

C'è dunque qualcosa, sul piatto, che è già di carattere regressivo e da cui occorre guardarsi fin che se ne sia in tempo. La rivoluzione mediatica che stiamo vivendo sta contemporeamente allargando in modo enorme le possibilità generali di conoscenza, e spegnendo insieme progressivamente, con la sua stessa strabbondanza, le capacità selettive e critiche dei più. Avevo detto "guardarsi", ma è bene ora aggiungere anche "reagire". C'è un altro importante saggio di Postman, infatti, che si chiama "Technopoly: Surrender of Culture to Technology". Ed è agghiacciante, ove davvero si verificasse, una resa come quella peraltro con grande lucidità di costatazione e di ragionamento in questo testo (tradotto in italiano da Bollati Boringhieri) ipotizzata.

Stiamo attenti, allora, e cerchiamo di essere all'occorrenza non solo critici ma anche combattenti perché questa ipotesi, la quale già infiltra qua e là ben più che solo ombre di materializzazione - in politica, in economia, nell'istruzione - non riesca a diventare realtà. Si possono semplificare tante cose, ma non il pensiero, non la cultura, a pena di farli morire. Il pianeta è già sulla soglia di rischi tremendi come il prodotto dell'inquinamento atmosferico, della riduzione delle risorse idriche, della sovrapopolazione, ma quello che ci priverebbe della fecondità della nostra memoria è, per le conseguenze che può provocare anche refluendo sugli altri appena detti, il più grave di tutti.