Quella di questo Primo Maggio sarà ricordata come la svolta (o, meglio, il salto in avanti) di Dublino, sede scelta a sancire l'ingresso in Europa di altre dieci nazioni portando così a venticinque il numero dei suoi Paesi membri con rimarchevole estensione verso oriente. Otto appartengono all'area ex comunista: Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Cèkia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria; due sono isole mediterranee: Malta, Cipro. Ma a me più di Dublino pare sia un'altra la vera città-simbolo di questo evento, e cioè Gorizia. Gorizia, dove si è appena completato quell'evento storico che era stato, quattordici anni fa, la caduta del muro di Berlino. Come non più Berlino Ovest e Berlino Est, non più da adesso neanche Gorizia e Nova Gorica. Era l'unica città che ancora restava, superstite della «guerra fredda», tagliata crudelmente in due da un confine lungo il quale correva, dal Baltico all'Adriatico, quella che era stata chiamata «cortina di ferro», vigilata da due superpotenze, USA ed URSS che, non più alleate, si digrignavano allora i denti. E costituiva ancora l'ultima scoria residua di quell'Europa post nazifascista pattuita e configurata a Yalta, prima ancora che la guerra finisse, da Churchill, Roosevelt e Stalin, e ripeteva su scala mondiale quel tipo di spartitoria progettualità da tavolino strategicamente attuata dal Congresso di Vienna dopo cancellato Bonaparte e, un secolo di poi, da quello di Vérsailles dopo la dissoluzione dell'Austria-Ungheria. Muro che va, però, muro che viene: un altro ne sta sorgendo a tagliar duramente fuori cittadinanze, fra Israele e Palestina, come se non fosse Palestina anche Israele. Ma è di Europa che stiamo parlando adesso, e di cittadinanze che invece, era ora, si riunificano e si riunificano con gioia.

Ho provato commozione, e perché non confessarlo, assistendo l'altra sera in tv a questa attesa di mezzanotte in piazza, con Gorizia multicolore d'illuminazione e di fuochi d'artificio, e danzatori, e acrobati e clown, mentre echeggiavano canzoni e l'Orchestra Sinfonica di Lubiana suonava in sincrono col Coro di Trieste. Io che la mattina del 1° maggio del '45 ero alla finestra per aspettare, mentre erano in fuga le retroguardie naziste, i primi carri armati americani dell'VIII Armata con la stella bianca sulla torretta provenir dalla marina, e invece ho visto giungere dalla parte opposta quelli del VII Korpus jugoslavo con sulla torretta la stella rossa, che erano scesi dall'altopiano. Fermati gli altri dall'Isonzo proprio in quei giorni in piena. C'era il capo dell'esecutivo d'Europa Prodi, brindante a Gorizia europea in questa sorridente ed augurale mezzanotte, insieme al primo ministro sloveno Rop; mancava invece Berlusconi che pure va sempre dappertutto ed è la seconda sua assenza preoccupante dopo quella dai festeggiamenti del 25 aprile. Oh, Gorizia, che i regnanti d'Austria chiamavano «la Diletta» e che costò all'Italia nella così detta «grande guerra» (non avevamo vista la successiva...) le dodici tremende battaglie dell'Isonzo.

Possiamo solo prevedere, con fiducia, questa nuova Europa che sarà, noi che abbiamo conosciuto dai libri quella romana e quella carolingia, quella degli Absburgo-Borbone e quella napoleonica, e poi quella degli Stati nazionali consolidati; e conosciuto invece sulla pelle quella devastata dalla seconda guerra mondiale e poi stretta fra i due blocchi capeggiati da Washington e da Mosca, e che adesso viviamo in quella di Maastricht. All'Europa dei Sassoni e degli Angli e all'Europa Latina si sta dunque ora con suo manifesto entusiasmo aggiungendo l'Europa Slava, facendola per la prima volta così ampia e in attesa che fra pochi anni anche Croazia, Bosnia, Serbia, Albania, Bulgaria, Romania, la rendano finalmente integrale. Col doppio della popolazione degli Stati Uniti, già adesso in seconda posizione per questo rispetto a noi, pur se col triplo di peso industriale, e in grado di equilibrare da un lato questi e dall'altro due miliardi e passa di cinesi e d'indiani e le loro economie in velocissimo sviluppo.

Quanti secoli di incomunicabilità reciproca stanno dietro a tante singole aree di questa nostra Europa che prende il nome dalla ninfa rapita da Zeus per generare Minosse poi re di Creta? Ricordandoci così come sia passata dall'Ellade la nostra successiva civiltà nata in Mesopotamia (attuale Iraq). Per quanto tempo, ad esempio, le sue vicende furono contrassegnate dai permanenti conflitti tra Francia e Germania (chi si tormenta adesso più sul di chi siano l'Alsazia e la Lorena)? E fra Germania e Polonia (ci vuole uno sforzo di memoria per ricordarsi il «corridoio di Danzica» e il nome di Prussia Orientale attribuito alla sua parte limitrofa)? E fra Italia e Slovenia (cos'era il poi smembrato «Territorio Libero» di Trieste per noi e Trst per loro)? Quest'Europa un tempo non solo di latini ma anche di galli e britanni, di goti, illirici ed unni, quest'Europa mediterranea e celtica, dove s'erano fronteggiate e poi splendidamente fuse la cultura araba e la sveva. E in cui ora sia i bruni che i biondi eleggono un unico Parlamento e battono la stessa moneta.

Comunicare è il verbo epocale ormai assunto a logo di un mondo che la tecnologìa ha ricondotto a villaggio, ed era stata CECA la prima sigla unente all'inizio e per una parte della loro economia solo sei Paesi da cui per passi successivi è venuto il resto: Comunità - significava - Europea del Carbone e dell'Acciaio. La communis ratio dei nostri antichi, mutuata dal greco, e pieno di significati, vocabolo koiné. Torniamo dunque all'emblematica Gorizia, dove sino a pochi giorni fa c'era un confine sessantennale che la spaccava sfiorando la sua stazione ferroviaria, e se ne dovette fare un'altra, separando in due il suo cimitero, e c'erano delle tombe in cui si riposava coi piedi in uno Stato e il cranio in un altro, e strade i cui abitanti si guardavano da finestre nazionali diverse ed erano magari parenti ma non concittadini. E' la parola «frontiera», in sloveno «méja», che ha una volta per tutte finito lì, vivaddìo, d'aver senso. Le norme del trattato di Schengen, le quali demarcano la extracomunitarietà, si spostano, per adesso e per noi (per la Germania molto ma molto di più a nordest) di una quarantina di chilometri a sudest, cioè al confine croato. Il bilinguismo continuerà a vigere, naturalmente, anche in quest'area vicina acquisita a identico status, ma recuperando la spontaneità d'una volta. E quei vini, quei salumi e quelle ciliege, e quei prodotti industriali, che son sempre gli stessi non avranno di nuovo più diversità doganale di nomenclatura.

«Perché tu sei slavo, figlio della grande razza futura...», scriveva nel «Mio Carso», rivolgendosi ai suoi compagni di giochi Scipio Slataper, lo scrittore vociano caduto combattendo in grigioverde nel 1915, nella consapevolezza dell'essere entrambe le due etnìe popolanti questo territorio comunemente «irredente» - tale era il termine usato - rispetto all'allora straniera Austria di esso padrona. Ed ha appena detto Claudio Magris, in un discorso tenuto all'Università di Trieste proprio per questa occasione: «Kosovel, il grande poeta sloveno del Carso, non è meno mio di Saba e viceversa... L'Adriatico italo-slavo, amputato delle sue componenti, sarebbe più misero e più estraneo per tutti». Da parte sua Demetrio Volcic, già direttore del TG1 ed ora deputato italiano a Strasburgo, lasciava aver presente lo stesso giorno in tv d'essere nato a Ljubljana ed essere molto vissuto a Vienna, dove aveva pure progettato una scuola internazionale di giornalismo. Così come insegna in un paio di Università italiane uno scrittore croato di spicco, nativo dell'isola istriano-dàlmata di Cherso/Krès e collaboratore anche di giornali nostri, come l'autore di «Mediterraneo» (quale splendo saggio, denso e profumato d'amore!) Predrag Matvèievic. Ed era stato del resto il regime fascista ad aver espunto dal nome di Guglielmo Oberdank la “k“ finale, come se della sua etnìa d'origine ci dovessimo vergognare. Eppure, quando vado a trovare i miei nel cimitero di Sant'Anna a Trieste dove pure io una volta finirò, nipote di quattro nonni uno solo dei quali italiano, percorro viali mostranti lapidi, cappelle e monumentini gremiti in fitta alternanza anche di cognomi slavi ed austriaci.

In quest'èra internetica e di cellulari, impareremo un po' alla volta tutti a guardare senza pregiudizio, anche da questa Sicilia che all'Italia sta quaggiù in fondo, fin su all'Alto Adriatico e ancor più oltre, con occhio e mente che facciano nostra una necessità di comunicazione buttante, decisamente e con intelligenza, a mare ogni invecchiato stereotipo differenziale di figure ed interessi che l'Europa, se vuol sopravvivere, non tollera più? La festa di Gorizia è non solo un invito, ma anche una promessa in questa direzione. Posando quei calici e dopo spente quelle luminarie, che si sappia ben scegliere allora, anche lontano da lì, fra ciò che va rimosso perché ci separò e ciò che invece resta potente, e di collettivo giovamento, motore di futuro.