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Categoria: Secolo postmoderno

«Chi sono gli altri?» è la prima cosa che chiedi, normalmente, quando ti propongono di partecipare a una tavola rotonda. Che poi rotonda, normalmente, non lo è più dai tempi di Artù: o è una bancata di fronte a una platea o son poltroncine affiancate davanti a una telecamera. E ovviamente non lo chiedi per decidere se ci stai o no, ma per saperti regolare nel confronto. Perché il tema può essere anche sempre quello, ma se "gli altri" sono un principe del foro, un astrofisico, una poetessa, un assessore e un manager non è la stessa cosa come se, per dire, si trattasse invece di un segretario di partito, un professore di economia, una biologa, un romanziere e uno stilista di fama: fin dal principio dovrai cioè pensare a tarare diversamente le cose che dirai. Si preferisce spesso, infatti, da un po' in qua (primo maestro è stato Maurizio Costanzo) che sui problemi della società attuale non si confrontino tanto specialisti dello stesso ramo, ancorché di avviso diverso, ma che sullo specifico oggetto di questo confronto si proiettino ottiche differenti per il tramite di soggetti il più possibile scompagnati come campo d'attività, anagrafe, ed estrazione ambientale. Dal primo criterio infatti, sorprese da aspettarsi non ci sono, da questo secondo invece sì. E in manifestazioni di questo genere sono appunto le sorprese e l'inedito ad essere il sale, perché se no è routine e resterà per consolarsi agli astanti solo l'emozionante beccarsi di tutti questi galli figli di una stessa arena.

«Dalla memoria all'utopia» era il tema dell'ultima "tavola rotonda" intorno alla quale sono stato invitato a metaforicamente collocarmi. Ed è abbastanza chiaro, adesso che l'ho enunciato, quel che intendevo dire nel capoverso precedente. Centro di essa possono essere diecimila cose, e anche il tutto contrapposto al niente; pure il tipo di collegamento fra questi due termini può infatti essere soggetto a centinaia di varianti. E tutto dunque dipende dall'uso di questo tema e dalla combinazione dei partecipanti: se saranno quattro-cinque filosofi o quattro-cinque esponenti militari o quattro-cinque studiosi di diritto o quattro-cinque pittori e scultori o quattro-cinque ricercatori storici avremmo dei duelli e delle convergenze. Ma se, ecco, avremo un filosofo, un esponente militare, uno studioso di diritto, un pittore o scultore, e un ricercatore storico, meglio naturalmente se non tutti del medesimo sesso ed età, ecco che tutto diventerà più imprevedibile ed interessante. E che il pubblico non si troverà davanti allo srotolarsi di un copione fatale ancorché possibilmente contrastato, bensì a un caleidoscopio: la diversità stessa delle rispettive attitudini impostative e la relativa varietà dei linguaggi usati obbligherà tutti i partecipanti a una maggiore reciproca intelligenza e ad una maggiore estemporaneità argomentativa. Il risultato sarà più pregno e più provocatore d'aperture, l'ascoltatore se ne tornerà probabilmente a casa con qualche finestra di pensiero in più.

Non dirò chi sono stati "gli altri", oltre a me, in questo dibattito (e non risulteranno dunque quali ne erano le rispettive categorie d'appartenenza, non corrispondenti a nessuna di quelle in precedenza esemplificate e, invece, qualificatamente altre), né quel che vi ha sostenuto ciascuno. Penso proprio che non importi al mio presente assunto qui. Ma gli appunti di quella sera li ho conservati e adesso esporrò un filo di discorso che rappresenterà esito collettivo dello sceverare un tema con osservazioni e conclusioni sotto un certo profilo impreviste, ma validamente sottoponibili anche a un attenzione esterna.

Istintivamente un po' tutti attribuiamo (attribuivamo) a una parola come MEMORIA un significato di tipo storico-culturale. La «memoria di qualcosa», anche quando sia solo privata, no?. Un evento importante lascia memoria, di sé. La Storia stessa che cos'è, se non essenzialmente memoria? Ci sono monumenti che appunto Memorial, in inglese, si chiamano. E allora discutere, per esempio, del concetto di memoria relazionato a quello di utopìa, non può che rimandare a fatti accaduti, a teorie elaborate, ad azioni di personaggi, a riferimenti inconclusi, ad obiettivi non raggiunti, a speranze comunque lontane. Hai voglia, dalla Città del Sole al Maggio francese. L'Europa prima romana, poi carolingia, poi absburgica, precipitò a diventare sogno napoleonico e rimase poi costantemente divisa fino all'UE, che però configura solo trattato parziale ed incompleto il quale rinchiude nuovamente in utopìa una sua rinnovata unità politico-statuale, che ridivenga cioè compattazione territorialmente istituzionale. Non più centralistica, oltretutto, ma collegiale. La memoria non è un dato statico, essa incorpora eventi sempre nuovi e sempre nuove mutazioni. Ci sono utopìe che tornano ad essere tali dopo verifiche d'inveramento relativamente brevi (il giuramento della Pallacorda, o quella gigantesca del comunismo,le stesse Nazioni Unite oggi in crisi), e altre (l'autonomia delle colonie americane diventate Usa, il sogno risorgimentale poi chiamatosi Italia e peraltro oggi ridiscusso) che invece ad un momento del loro radicarsi diventano progetto stabilmente attuato. Mazzini era un utopista e Garibaldi no.

Ma guardiamola adesso da un altro punto di vista, dopo aver bene osservato in faccia il pubblico di questa tavola rotonda, che aveva un'età media infinitamente più bassa che quella degli oratori a confronto. Se dici «memoria» a un ventenne/trentenne, mica son questi i concetti che tale parola loro a tappo suscita (e ne tengono conto, del resto, anche ormai i più recenti dizionari). «Avere in memoria» qualcosa, nel linguaggio corrente, oggi significa averlo dentro al computer. Oggi per memoria s'intende un hard-disk. Per le leggi della semantica, che sono a rimando immediato significante-->significato, al posto di un riferimento culturale interiorizzato e quindi variabile da individuo a individuo, oggi ci stiamo trovando davanti a un archivio - che potremo considerare più o meno completo - ordinato tematicamente/alfabeticamente/cronologicamente. Il passaggio non è da nulla: dalla memoria come ricordo (che comunque ognuno di noi continua a possedere), alla memoria come nome di una componente elettronica che noi continuamente usiamo. Si sta enunciando un paradosso? Macché, perché basterà l'esperimento di consultare un dizionario anche del primo Ottocento, quando il computer era, come si dice, solo nella mente degli Dei e dunque solo possibile utopìa di qualche folle, per trovare, della parola "memoria", questa sintetica definizione: «Facoltà di ritenere e riprodurre». Era attribuita al cervello umano, ma ditemi voi se non è proprio questo il requisito fondamentale di quel "disco rigido" oggi nostro quotidiano servitore. Che questo termine memory dunque neanche si può dire minimamente lo usurpi.

E attenti allora a parlare e attenti a intenderci. «C'è nella tua memoria cosa produsse Trafalgar?» o, che so, «il giardino interno del nostro liceo?» (Risposte possibili: «Ma certo», oppure «Un po' imprecisamente», oppure «Ahimè no»). «Hai nella tua memoria come andò il contratto con quella compagnia di assicurazioni?», o, che so, «Quante volte hai chiamato Giuseppina?» (Risposte possibili: «Ora clicco e ti dico subito», oppure «Vuoi anche le date?», oppure «No, tutto già cestinato»). Quando non ci sia attenzione al raccordo generazionale e al vento che soffia sui rapporti socioculturali e linguistici, e alle modalità stesse, così velocemente mutanti, della nostra vita di relazione, rischiamo che i codici usati non siano più quelli comuni. Sbaglia la generazione precedente se crostifica i propri apparati mentali e non aggiorna con realismo le proprie conoscenze e attitudini ad intervenire, sbaglia la generazione successiva se non volta ogni tanto con attenzione la propria testa all'indietro verso un prima. Annotiamocelo, intanto, che la parola memoria adesso ha due significati, e che quello attualmente corrente non è più quello che era in precedenza, anche se ancora sopravvive. Per continuare ad esprimersi semplicemente occorre insomma, e non deve sembrar strano, avere adesso un bagaglio più sofisticato.

Passiamo all'altra parola, UTOPIA. Noi con essa intendiamo qualcosa di estremamente positivo ed augurabile, ma che però contiene, almeno per il presente, caratteristiche insormontabili di irrealizzabilità. E' utopia la pace mondiale, l'eguaglianza fra gli uomini, il portare in amicizia la nostra "civiltà" fra eventuali razze aliene viventi in altre galassie. Trattasi però di concetto talmente forte che non ne possiamo né abbandonare una pur labile speranza né smettere di commettere atti coerenti in quella direzione. Molte utopìe sono rimaste tali nei secoli: la Repubblica immaginata da Platone, le teorie di Tommaso Moro, Campanella, Bacone, Rousseau... Altre no: si sono concretate alla fine addirittura un paio delle più antiche, coltivate pur dandole per impossibili. Che l'uomo potesse volare, per esempio: sulla Luna il paladino Astolfo, Cyrano de Bérgerac e il barone di Münchausen ci andarono per finta, ma quell'Armstrong lì l'impronta del proprio piede sulla sua sabbia finì poi col posarcelo davvero. Leonardo da Vinci non ci poteva riuscire, ma il signor de Montgolfier visse nell'epoca del vapore e i fratelli Wright in quella del motore a scoppio (e rappresentarono solo due fasi intermedie). E ancora: che l'uomo potesse «vedere l'altrove» è analoga storia di anelli, bacchette, filtri e specchi magici finché restarono inimmaginabili l'esistenza delle onde elettromagnetiche hertziane e l'uso che se ne poteva fare come vettrici un po' di tutto.

Facciamo un piccolo confronto. Sono le utopie filosofiche e politiche quelle più facilmente destinate a rimanere tali; quelle scientifiche, perfino le più incredibili, le più possibilitate a diventar realtà. Quasi assurdo vero? dovrebbe, a rigore, essere il contrario: essendo le prime solo legate a volontà umana e le altre invece prigioniere di leggi fisiche, chimiche e meccaniche. Eppure nessuno è mai riuscito ad evitare alle più sacrosante delle rivoluzioni dal basso di trasformarsi in tirannidi (anche l'economia lo è quando diventa "cartellizzata" e monopolistica, quando viene consentito al comparto produttivo di sovrapporsi al potere statuale o determinarlo), mentre tu e tua moglie oggi potete davvero conversare in video in tempo reale da un continente all'altro, esprimendo giudizi e consigli sul vostro rispettivo look, assai meglio di quanto avrebbe potuto immaginare la fantasia scatenata di Jules Verne oltre un secolo fa. Non sono tassative, queste distinzioni, intendiamoci. E' probabile che il teletrasporto (scomposizione qui del tuo corpo in atomi e ricomposto altrove tornando ad assemblare i mattoncini trasferiti lungo fasci di luce) rappresenti qualcosa di sul serio irraggiungibile mentre la science-fiction ce lo ripropone di continuo; e invece la grande utopia di Martin Luther King che lui stesso definiva sogno, con l'aria che tirava negli anni '60 e cui tutto sembrava opporsi, è andata in porto pur costando il suo assassinio. Oggi l'integrazione razziale negli Stati Uniti è cosa fatta con la sua componente nera, la più massiccia fra quelle prima soggette ad apartheid, anche se non ancora con messicani e portoricani: il suo attuale è un governo di destra, non dunque progressista, eppure due importantissimi suoi dicasteri sono affidati a persone di colore, un uomo e una donna. «I have a Dream!», gridava MLK, e quel dream oggi è concreto. (C'è un altro che ne ha ripreso il motto, e non lo nomino per rispetto del precedente: «Ho un sogno, cambiare l'Italia», va dicendo, e questa sì che va sperato utopia resti, dai segnali di trasformazione in una portinerìa - intrigante, invasiva e retrospettiva - che fin qui emergono e che questo Paese non merita).

Persino tra due facce della stessa medaglia l'utopia può avere diversa sorte, perché Fidel Castro certamente utopista non era, dato che son cinquant'anni che governa Cuba (solo Francesco Giuseppe lo fece un po' più a lungo a Vienna, però quello era un trono), ma altrettanto certamente Ernesto Guevara sì, dato che andò in Bolivia con l'incredula per chiunque ipotesi di poterne essere il Garibaldi ma per morirvi invece proprio come Carlo Pisacane. Ma va fatta anche per Utopia la stessa analisi semantica già fatta per Memoria. «Utopia» era proprio il titolo dell'opera di Thomas More, che pagò a sua volta, si sa, con la vita le idee espostevi, ed è parola che viene dal greco antico, lingua in cui significava (ou + tòpos) letteralmente «non luogo». Isola fantasticata dall'autore in cui il governo era illuminato e le cose andavano bene, a differenza che nell'Inghilterra del tempo. Ora, ecco che il concetto di "Non-luogo" viene ripreso da un socioantropologo francese, Michel Augé, capovolgendone radicalmente il senso: altro che utopia, sono nonluoghi tutti quei concretissimi ed alienanti scenari diffusi in tutto il mondo e caratterizzanti l'omologante vita postmoderna, tanto uguali fra loro ovunque da far anche perdere il senso di dove esattamente in quel momento si sia: gli aereoporti e gli interni di un aereo passeggeri, i MacDonald e le metropolitane, le corsie degli ospedali e gli open spaces degli uffici; eccetera. Dunque "utopia" torna al suo significato letterale e significa a sua volta, come "memoria", qualcos'altro. Accompagnando tale mutazione con un ulteriore dato avallante. C'è forse un'utopia così a lungo stata tale e poi riuscita invece in un modo così perfetto e oltrepassante perfino ogni suo possibile potere prefigurato, come il computer? E non riesce ad essere insieme anch'esso un Non Luogo? Dal momento infatti che non conosce territorialità e distanze, consente elaborazioni sia individuali che condivise, ricetrasmette sia da punto a punto che circolarmente o in conferenza, come si fosse tutti astrattamente fin che si vuole ma hic et nunc e come; e ciò contestualmente mediante suoni e oralità linguistica, mediante immagini bianco/nero o in colore, fisse o in movimento, e anche con parole scritte su display. Può per giunta, oltre che sul tavolo, essendo facoltativamente anche diventato piccolissimo, starti nel taschino, in cintura, o al polso. Parte inscindibile di te.

Ma attenzione, infine: era già stato Adorno a tramutare, e pure non di recente, la patente di questo termine, definendo il suo carattere sostanziale come sempre e inevitabilmente «propulsivo». L'utopia, insomma, ci vuole come l'aria che si respira. Si potrà non arrivare lì dove si crede, ma si sarà attivato un motore che spinge comunque avanti. Prendiamola dunque come possedere ad ogni modo una grande e nutriente valenza di ottimismo, e conferiamole (ci metto, guarda, un di più) una bella etichetta su cui stia scritto: «Utopia = adrenalina culturale». In epoca di pragmatismo, che ancora considera l'utopia utopia, e dunque qualcosa di melanconico, futile, sbagliato e da scartare, béh infelice chi non ne ha qualcuna.

Magari c'è stato qua e là qualche intreccio un po' confusionato ma questa, dài, è stata poi davvero una gran bella tavola rotonda. I cui contenuti ho con gran gusto, e credo utilmente, qui comunicato.