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Categoria: Secolo postmoderno

Ventidue milioni di euro non sono uno scherzo. E' quanto «Agenda 2000» assegna al Piano Regionale del Colore per la Sicilia. Colore da applicare in materia urbanistica, paesaggistica e restaurativa, secondo criteri temibilmente in mano a funzionari, politici, amministratori ed architetti e su cui le Sovrintendenze non dispongono di poteri propositivi ma soltanto d'eventuale veto. Si è già scatenata sui giornali una fiera polemica a spade sguainate su «chi» decide e su «quali» - abbiamo con l'occasione accertato l'esistenza del bluazzo - dei trenta milioni di colori possibili sono da considerare usabili; i computer ne dispongono, come si sa, di soli sedici milioni. Cosa s'intende col pianificare il colore (delle facciate, degli infissi, degli elementi decorativi)? D'accordo con la tradizione, comunque già multiforme e miscugliata, o in modo omologatamente innovativo, magari con un tot numericamente limitato di possibili sprazzi di fantasia? Anche la scala cromatica è un medium, come gli alfabeti, e ci può comunicare di tutto. Il Signore ci sia misericordioso nell'inverarsi di questa emulazione con la città di Torino, gli esperti del cui Politecnico han lavorato per due anni a un «piano urbanistico del colore» che la preservi da nuovi insorgenti quartieri residenziali arlecchinati; fin troppo offendenti i nostri occhi e capaci, in giro per l'Italia, di non farci neppur capire attraversandoli, per confusione fisionomica e assente specificità di connotati, in quale città ci troviamo in quel momento. Perché c'è modo e modo, infatti.

Ma per quale motivo l'ho definito in titolo «falso problema»? Presto detto: perché è un problema di qualità, cioè di cultura e d'intuizione, di chi costruisce e di chi restaura, non un problema di cànoni paragrafati con cromatismi tabellari che finirebbero con l'essere vuoi ridicoli vuoi pericolosi. Pittori, stilisti della moda e scenografi sanno bene che il rosso è forza, l'arancio allegria, il nero eleganza, il verde freschezza e il verdone autorità, il giallo giovinezza, il bianco candore, il viola provocazione, il bistro anonimato, la gamma dei blu-azzurri sincerità o potere, il lilla melanconia e il marrone ambiguità; così come il loro variato sposarsi dà luogo a innumerevoli caratteristici messaggi. E dunque basterebbe dotare di poteri interventisti più concreti appunto le Sovrintendenze, che già per qualifica istituzionale si presumono possedere i requisiti necessari. Talvolta sono gli stessi materiali impiegati che dettano il proprio colore senza che occorrano repertori di vernici e smalti; e quelli riflettenti, oggi così diffusi, sono addirittura cangianti lungo la giornata. Anche col colore comunichi epoche e stili, modestia e fastigio, qualifiche d'uso e di funzione; puoi cattivare o indimidire, esser accogliente o solenne o entrambe cose insieme, segnare confini al paesaggio oppure immergertivi. Ma guai se in ciò s'impicciano organi legislativi, gruppi parlamentari e gusti di assessore.

E' la regola, che in questo campo è inammissibile. Forse che la Mole Antonelliana non è un messaggio, anche se il suo eclettismo stride con le geometrie sabaudo-agnellesche? O la stravaganza nera dell'Eiffel, che doveva appunto essere provvisoria nella cosiddetta Ville Lumière e invece poi i parigini se la tennero? Quale localizzata ma non sgradevole anche se sorprendente bizzarìa maggiore, e pur se antitetiche fra loro, del quartiere Coppedè a Roma o del Palazzo Mondadori di Segrate (Milano)? Se passeggiate per Kensington o per Chelsea, quegli edifici monofamiliari stretti e verticalizzati a due finestre sole per piano, attaccati l'un l'altro a schiera e tutti uguali, ma ognuno diversamente tinto, pur senza troppe dissonanze ma magari con due striscie smezzanti cromaticamente il colonnino che divide i due gradinati portoncini e l'interrato che va giù in fossato con cancellata al limite del marciapiede, non vi comunicano forse quel senso tutto londinese della privacy, che è pure una forma di cultura? E per contro un villaggio peschereccio norvegese, con quelle file di casette che alternano sfacciati gialli-rossi-blu non dice forse legittima e rincuorante protesta contro i lunghi grigiori del cielo e la plumbeità del mare? Ma persino fisionomie architettoniche che sembrano di omologazione europea è proprio con la spontaneità del colore che forzano un congelamento d'identikit e anzi se lo vietano. Guardate il barocco, così simile ovunque nelle sue volute spiraliche, nei suoi svasi e nei suoi rigonfiamenti, eppure grigio a Madrid e a Palermo, tufo ocradorato nel Ragusano, nerolavico a Catania, di mattoni rossi se è il piemontese Palazzo Carignano, e alleggerito da una varietà di colori pastello tra profili bianchi se siamo in Austria o in Baviera. Evocherà qui il waltzer come in Sicilia invece processioni di incappucciati.

C'è una «semiotica connotativa» insomma, per dirla in urbanistica come fa Prieto, che deve essere lasciata libera di cantare, a livello colto o popolare. Nessuno s'è mai sognato di prescrivere come dovessero essere dipinti i carrettini siciliani o le ceramiche fiorentine o le facciate lagunari di Burano; e a Innichen/San Candido è chiaro che ne continui a dover essere lignea la parte superiore. Non ci sarebbero se no il color tutto indaco del nuovo museo di Bilbao né la coloratissima sparpagliata esplosione di cromatismi musivi nella Barcellona di Guardì. Certo, c'è anche l'orribile multicolore Palermo residenziale, condensata e raffazzonata, che dobbiamo a Gioia, Lima e Ciancimino. Ma consideriamo anche questa, pur se opprimente e tristissima, documento storico e mettiamoci in testa che solo contesti di civiltà e di cultura producono, qualora risorgenti, estetica e vivibilità dell'ambiente che ci appartiene. Quei ventidue miliardi non spendiamoli dunque per stabilire quali ventotto colori dei trenta milioni disponibili possano essere usati e quali no. Ci sono tanti modi migliori di utilizzarli.