Continuiamo a parlare di parole, che sono il nostro pane. Le parole più tremende che troviamo per ora sui giornali sono numeri. «Ottocento», «Tremila», «Centocinquantamila», «Trentacinquemila», «Due»... La prima e la seconda contabilizzano rispettivamente il numero di missili e di bombe che il Pentagono ha stabilito far piovere sull'Iraq nel solo primo paio di giorni di guerra. La terza dice quanti sono i soldati già ammassati dagli Usa ai confini iraqeni. La quarta è la cifra che approssima quanti sono previsti i caduti fra questa truppa fra l'inizio e la fine delle operazioni di terra. La quarta si riferisce alle settimane supposte necessarie a sbrigare questa partita. Piacerebbe che non venissero esposte in titoli ed articoli con la stessa oggettiva informatività con cui si dà - e spesso con maggiore rilievo tipografico - il numero dei morti in autostrada nell'ultimo week-end. Piacerebbe trovare accanto ad esse almeno qualche «Ohibò», parola bellissima e sonora quanto poco usata, il cui senso di scandalizzata critica bisogna invece andare a cercare, quando c'é, nei colonnini di commento magari sì intitolati a una colonna «Guerra ingiusta» oppure «Ma è proprio inevitabile?». Insomma, un grande e non giornalistico timore di poter apparire come "nemici dell'America". C'era su «Repubblica» di venerdì un magistrale intervento di Umberto Eco il quale cercava di spiegare agli americani, ma proprio da semiologo, che quando in Europa, all'Onu, nella Nato, c'è chi si dichiara autorevolmente contrario, compresa la Chiesa, a che si intraprenda questa guerra, ciò non vuol dire che si tratti di "nemici dell'America" e che l'America stessa possa dichiararli «nemici» propri se non addirittura «traditori». Tra essere nemici e non essere d'accordo, teneva saggia lezione Eco, ci sta in mezzo quel fondamento della democrazia che è il DIRITTO AL DISSENSO, cioè ad avere idee proprie e diverse da quelle degli altri, peraltro ben distanti comunque dal poter essere al contrario presi per favoreggiatori e amici di Saddam Hussein e di Osama Bin Laden.

E c'è un'altra parola che è entrata nel lessico bellico specificatorio, quello cioè che attribuisce a una guerra natura classificabile e graduatoria di merito: «Preventivo»; questa è definita, da Washingon, una guerra preventiva. Più una mossa da manager di grande azienda, insomma, che da politici, generali ed ammiragli? Come fosse un'OPA, una scalata azionaria in Borsa che si deve preannunciare un debito tempo prima e col permesso della Consob. Il quale è ineludibile, mentre pare non lo sia quello dell'Onu. Seppure già Macchiavelli, von Clausewitz e quel teorico cinese famoso di cui non mi viene il nome adesso, consigliassero in pratica tutti, ai regnanti del loro tempo, di giocare d'anticipo, abbiamo nel frattempo avuto due guerre mondiali in cui la "grande potenza" che aveva cominciato, si chiamasse la trappola Sarajevo o Dànzica, è stata alla fine disfatta. Con milioni e milioni di morti. E "preventiva" contro chi, stavolta? E' in grado l'Iraq di mandare truppe da sbarco in Florida o missili oltre l'Atlantico?

 

"Preventivo" è una parola che, proprio semanticamente, presuppone sempre cautela e lucidità. E invece no: si avvertono infatti provenire da Washington segnali di chi ha perso la testa fra la costosa e bruciante sconfitta subìta in quell'Afghanistan appena messo a ferro e fuoco proprio a tappeto col dichiarato e fallito scopo di catturare o uccidere il wanted Bin Laden rimasto infine uccel di bosco, e i vaselinati ambasciatori che deve invece spedire a Pyongyang per trattare con un regime dittatoriale e armato anche più di quello dell'attuale Iraq, e molto più pericoloso di lui sia per l'America che per il mondo, quello cioè della Nordcorea. Quando «preventivo» non è una mossa di scacchi ma il frutto di una crisi di nervi procurante panico, allora non è più applicabile al caso e costituisce per contro un infedele stravolgimento lessicale. Come sostituirla, allora, più correttamente? L'aggettivo esatto mi pare, linguisticamente, «affermativo». Una guerra affermativa. Per prestigio ferito da vendicare, per ansia di colpire alla cieca avversari indistinguibilmente mimetizzati, per bloccare ricchezze petrolifere investibili sul tavoliere opposto. Perché non è stato certo l'Iraq a buttare giù quelle due torri a Manhattan, ma una reazione estremisticamente diffusa dal Mediterraneo orientale al vicino Est asiatico contro tutta la politica americana di questi anni da quelle parti e verso l'intero mondo islamico. La quale ha cellule, sparse ma collegate, in tutti quanti i paesi di quell'area nessuno escluso. Sicché attaccare l'Iraq non sarà risolvente ma solo peggiorativo. Per gli Usa e per tutti noi.

 

Altri attentati tipo Twin Towers per ora non avverranno perché non sarebbero deterrenti bensì aizzanti. Ma dopo un attacco all'Iraq sì, e dureranno decenni. Come farli cessare? Direbbe quel sempliciotto di Bertoldo a re Alboino: «Basterebbe far sì che a palestinesi, curdi, ceceni, eccetera, venisse riconosciuto d'essere nazioni libere e indipendenti sui loro secolari rispettivi territori». Che fa, alziamo le spalle e sorridiamo? Oppure non è questo il problema?

 

«Le parole della politica» sono un bel dizionario uscito negli anni '60, compilato da Gino Pallotta scafatissimo cronista parlamentare. A spulciarlo adesso si ha la sensazione netta di quanto poco tempo durino, la maggioranza di queste parole qui, e come corrispondessero a qualcosa di labile di cui non abbiamo più nozione. Le parole di guerra, si tratti di «Settimo cavalleria» o «Undicesima aviotrasportata» o «Ottava Armata» o «Decima Mas», lasciano segni tali che possono scavalcare le generazione che li ha vissuti, e può ancora avere riconoscibile senso dire «guelfo», «giacobino», «bolscevico» (anche le rivoluzioni sono guerre). Ma passiamo in rassegna un po' di nomenclatura politica perché è assolutamente il caso di definire un fenomeno tutto italiano col quale combatteranno gli storici di domani. In Inghilterra tory vuol dire conservatore e wigh liberale, come cent'anni fa, e il Labour Party continua a dire nel nome che cos'è. In Germania nessuno ha dubbi sulla rispettiva rappresentanza di interessi dei due partiti maggiori, che continuano ad essere il socialdemocratico e il cattolico. In Russia ci sono dei nazionalisti democratici ma i comunisti ci sono ancora. E anche se negli Stati Uniti è un po' ambigua l'etichetta dei due schieramenti («democratico» e «repubblicano») che si alternano alla Casa Bianca, perché in realtà sono entrambi democratici ed entrambi repubblicani, ci mancherebbe, si sa benissimo quali sono le due didascalìe sottintese, e cioè progressisti e conservatori, e le due concezioni che li animano: una moderata ma innovativa nel sociale, l'altra duramente di destra. E in Italia, però?

 

In Italia c'è una bàzza sociolinguistica. Oggi magari c'è la televisione che ci aiuta con le facce. Ma lo studioso che domani si applicherà ad accoppiare nomi con intenzioni programmatiche per spiegar ciò ai suoi contemporanei, bèh, il suo daffare ce lo avrà. Intanto per la voluta genericità con cui ciascun partito s'è autobattezzato, da un lato ricorrendo a terminologie da marketing pubblicitario, il centrodestra, e dall'altro alla botanica, il centrosinistra. Notare anzitutto come i due raggruppamenti contrapposti abbiano temperato col suffisso «centro» il non voler essere rispettivamente chiamati «destra» e «sinistra» (una cosa così netta, ma come si fa, dài; sarebbe obbligante e imbarazzante). Scorriamo uno alla volta, questi due agglomerati pudichi e disponibili, che peraltro hanno, come vedremo, percorso filologico comune. E cominciamo da destra; pardon, centro destra.

 

La prima etichetta applicata sul prodotto è «Forza Italia». Perché dichiararsi politicamente quando è più efficace assimilarsi all'urlo degli stadi durante i Mondiali, che accomuna tutti i ceti e tutte le età in una voglia di vittoria? Poi, quando FI si allea con la destra ex missina e con i padani viene in primo piano un altro nome ed è «Il Polo», ma dura poco perché in realtà non vuol dire niente se non, alla lettera, che vuol essere un "punto d'attrazione"; ma i poli, si sa, sono due. E così nasce il nome definitivo: «La Casa della Libertà». Frutto di un'elaborazione tipica della pubblicità, che cerca sempre il massimo di suggestione onnidirezionale possibile. E poi, siglato, fa CdL (che prima era «Camera del Lavoro» e adesso si ritiene anzi bene che altra accezione d'uso la sostituisca). Casa della Libertà è un nome che non si può non condividere, perché libertà è una parola magica: potrebbe chiamarsi così anche un partito proletario d'opposizione in America Latina. E' che poi, a pensarci e a vederlo all'opera, l'unica libertà che a questo fronte interessa è quella d'impresa, anzi dell'impresa privata (prima i profitti, poi i diritti della persona), come testimoniano atti di governo e innovazioni legislative già attuate o ancora solo annunciate.

 

Centro sinistra, ora. Abbiamo «La Quercia», «La Margherita» e «L'Ulivo». Quest'ultimo è praticamente la somma degli altri due. Ma il primo è un albero e il secondo un fiore e nulla dice che il primo raduna gli ex comunisti e il secondo i cattolici (non tutti) e laici di varia provenienza. Della quercia si sa solo che produce ghiande e ci si fanno armadi, e della margherita che se la sfogli ti dice se il soggetto pensato ti ama oppure no. Dunque l'ulivo, dal quale viene l'olio per condire e per friggere, è un'alleanza a base ideologica fra la vecchia sinistra e un mix di ex democristiani ed ex di provenienza sfusa. Però non vogliono dirlo attraverso la nomenclatura con cui si rivolgono alla gente perché potrebbe essere compromettente. Meglio avere dei nomi privi di rimando non solo ideologico ma anche - così scelti - d'espressione di background sociale; cioè un semplice logo. Come la conchiglia per la Shell o il levriero per Trussardi. E anche come logo sono rispetto a questi da rivalutare, perché quelli sì erano eloquenti e tutti capivano che pezzo di società rappresentassero, lo scudo crociato, la falce e il martello, la corona reale, la fiamma tricolore sopra un'àra, il sole nascente sopra un libro aperto (e quello fu fatto fuori da Craxi, il precursore botanico che poi tutti seguiranno, sostituendolo con un garofano; c'era già la rosa dei radicali, ma quella almeno appariva stretta in un significante pugno).

 

Una variante sta nelle sigle, ma la condotta semantica finisce con l'essere anche qui mimetica, come ci fosse proprio un bisogno di non significanza, o di inesplicito. Nella Quercia non ci sono solo ex comunisti ma anche altri, p.es. ex magistrati, e non tutti gli ex comunisti sono nella Quercia, quindi il nome parlamentare che essi assumono è un più genericamente ovattato «democratici di sinistra», ma i computer e i titoli dei giornali vogliono sigle e così essi accettano di diventare semplicemente DS. (Inizialmente PDS, Partito Democratico della Sinistra, ma quell'iniziale “P“ per "partito" è sparita subito, perché partito sì che lo sono ma è questa parola che produce ansia di rigidità, di scarsa fluttuabilità, d'imposizione di coerenza, anche di possibili rigetti, e dunque è stata poco dopo eliminata). Credo che se i protestanti anglicani o i greco ortodossi avessero rispettivamente deciso di chiamarsi PA e GO avrebbero oggi anch'essi dei seri problemi di identità propria e di richiamo verso l'esterno. Perché come poi finisce, con le necessità mediatiche odierne? Che "ds" è impronunciabile e che adesso dunque si chiamano, tutti li chiamano, «diessini». Parola che non vuol dire niente, non ha dietro niente, non suggerisce niente. Che top ottimale!

 

A fronte di questi due percorsi semantici paralleli che gonfiano le vele con l'amor del vago, ci sono due soli soggetti politici, anche se più piccoli, che mantegono nel proprio nome l'evidenza delle proprie intenzioni politico-programmatiche: Lega Nord e Rifondazione Comunista. Onore alla chiarezza anche da chi non condivide le loro idee e le loro posizioni. Meno chiaro, in questo nostro strano paese, è che ci sia un partito il quale si chiama «I Verdi», ma che le camicie verdi le indossino invece i militanti di un altro che non gli somiglia per niente. Mamma che fatica devono fare i nostri elettori, chiamati alle urne più dagli spot che da una sostanza politically correct. Che sarebbe il farli almeno riconoscersi in qualcosa, invece di subire solo estemporanee botte di fantasia trasformista.