Un'occhiata soltanto, e a un solo segmento di essa, è quella che daremo stavolta alla comunicazione cinematografica. Il segmento mi pare interessante ed è quello dei film, sempre più frequenti, che proiettano con la loro location la nostra umanità di qualche decennio in avanti rispetto a come siamo posizionati adesso sul calendario. Non li chiamo neanche più di "fantascienza" perché la fantascienza, per intenderci, è «Guerre stellari», è quella che discende dalla pista letteraria degli Asimov e dei Bradbury e che ormai produce caratteri più salgariani e disneyani, cioè semplicemente avventurosi e svaganti, che davvero drammatici e introspettivi. (Harrison Ford o Bruce Willis vi conducono scassate astronavi o taxi volanti così come fossero ancora la classica diligenza inseguita dagli indiani). Se avveniristica fiction questi altri continuano pure ad essere, è infatti una forma di più sottile ed anche ansiosa prefigurazione del domani che essi incarnano, è una proiezione più di nostre attuali paure che delle aspirazioni ad entusiasmanti progressi tecnologici i quali erano la caratteristica precedente del filone, che comunque ancora prosegue in parallelo coi vari Batman e Spiderman. Poteva far paura anche la indistruttibilità del malvagio in «Terminator» o lo schifoso mostro di «Alien» ma non più di quanta ne poteva ispirare la creatura di Frankenstein negli anni Trenta. No, è un'altra paura questa, ed è stavolta tutta interna a noi. Talché possiamo decisamente parlare di psychofiction.
Il filone forse lo inizia già nel 1982 Ridley Scott con i replicanti di «Blade Runner» ma le sue tappe salienti sono segnate, nell'ordine, da «Existenz» ('96) di Cronenberg, «Nirvana» ('97) di Salvatores, «Matrix» ('99) dei fratelli Wachowski, «The Cell» (2000) di Singh, «A.I. Artificial Intelligence» ( 2001) di Spielberg. Ed è appunto Steven Spielberg, col suo ultimo film appena uscito e proiettato nelle sale in questi giorni, «Minority report», che mi spinge a dedicare a tale tema la rubrica di questa settimana. In modo da fissare, riconoscere e sottolineare a ritroso una particolarità che mi appare assolutamente importante di quanto, con insistito messaggio e non per caso, ci comunica il cinema da un po' d'anni. Cosa sta accadendo per ora nel nostro cervello (e nella nostra anima, che in accezione non cattolica vi è certamente interconnessa)? Assediato nei millenni passati da una paura che era quella di un futuro aldilà, esso è stato alfine portato a sostituirla con quella dell'aldiqua prossimo venturo ed anzi imminente. Non è un dato sottovalutabile. E' postmoderno anche questo, e proprio a pieno titolo vi appartiene.
Vogliamo ricordare i precedenti in materia dello stesso Spielberg? Sono «Incontri ravvicinati del terzo tipo» ed «E.T.». Non salta agli occhi la differenza? Il primo è nientemeno del 1977, e l'altro lo segue di cinque anni. Contraddistinti entrambi da bonarietà e fiducia, mentre questi ultimi due hanno un tremendo imprinting di costante angoscia. Spielberg ha fin dall'inizio della sua attività creativa posseduto entrambe le corde, perché pur non potendosi definire nessuno dei due ricadenti nel fantastico, sia «Duel» che «Lo squalo» evocavano apprensioni precise che l'uomo si coltiva dentro; mentre la serie di «Indiana Jones» giocava invece, sia pur retrodata a prima della seconda guerra mondiale, sulle stesse rocambolerie a sorpresa che sono la caratteristica delle star wars di Lucas. (Quanto ai due «Jurassic Park» ne costituiscono un mix che vi sta in mezzo). Ma cos'è mai, dunque, accaduto fra il 1977 e il 2001/2002 che ha portato un così acuto annusatore degli umori umani, come questo regista americano è, a ruotare di centottanta gradi la propria ottica avveniristica in quest'ultimo paio dei suoi film?
Mettiamoci attenzione. E' solo un quarto di secolo, ma è quello - ecco - che ha fatto esplodere tutte insieme, in campo scientifico-tecnologico, sull'orizzonte del mondo e nella vita degli umani: l'elettronica, la cibernetica, la transgenesi, la bioingegneria, la clonazione. Altro che la sognata conquista dello spazio o l'esplorazione delle sconosciute profondità marine, le quali sembravano la vera e primaria promessa di quest'èra: nell'ordine del giorno di quella cosa chiamata "progresso" s'è inserito prima di questi un altro punto: l'homo sapiens sta anzitutto rivoluzionando se stesso. E quella che il segmento di comunicazione cinematografica in questa sede sotto il nostro esame sta cogliendo nell'aria, e restituisce a noi come pubblico di spettatori, è appunto la sensazione di sgomento che la convergenza sul nostro essere della somma di queste elencate - chiamiamole semplicemente così - "novità" ci sta facendo, in modo più o meno avvertito, respirare.
Anche quando il cinema ci proponeva Jekill & Hyde o l'"uomo invisibile", dava forma a nostre angoscie interiori tentanti vie di fuga, ma allora (e perfino ancora nel 1968 di «2001 - Odissea nello spazio» l'uomo stava da una parte e il computer dall'altra, sia pure già dotato di propria intelligenza autonoma) non s'era usciti da una concezione umanistica dell'evoluzione. Oggi invece già s'intravvede sia la connessione simbiotica fra uomo e computer, sia quale supponibile progressione è ad essa forse non inevitabilmente ma comunque fermamente postulata: il futuro che si chiama cyborg è ormai a portata di man che ne tocca consistenti prodromi. E allora film che ci propongono macchine elettroniche le quali ci leggono in testa, sensitivi e paranormali che diventano padroni a distanza dei circuiti di quelle macchine, automi con un vero cervello nella propria scatola, innesti robotici con inserzione di capsule o di prese per spinotti nei tessuti vivi di uomini e donne, altro non fanno che prendere atto di angoscie in noi davvero già latenti. Magari le abbiamo sognate la notte e dimenticate la mattina, ma nel pacchetto di schede subconsciamente gestite della nostra psiche è alcun tempo che sono già inserite. Paghiamo il biglietto, vediamo il film e le riconosciamo, sono quelle.
Uscendo dal cinema ci possiamo anche dire che le fondamenta della storia sono troppo fragili per reggere tante iperboli narrative, che il finale è tradizionalmente banale, e talvolta magari che qualcuno degli attori non è un granchè. Ma il brivido di preoccupazione del brave new world in cui potranno vivere i nostri figli e/o nipoti cibernetizzati, bèh, quello dentro sì che ci resta ed è anche difficile scacciarlo perchè sappiamo trattarsi di percorsi secondo logica di massima prevedibili, comunque possibili, e non certo di fantasie da cartone animato. Nè aiuta queste latenti angosce (che esorcizziamo usando quotidianamente e anche con soddisfazione il computer per tutti i reali e versatili vantaggi da esso intanto ricevuti in dono) il pensiero di una possibile reversibilità di una profezia così. La quale - peraltro - da una sola cosa può provenire, e cioè da una catastrofe nucleare. Un'altra e più grande Cernobyl sarebbe sempre un'incidente ma un'uso bellico dell'atomo può, oggi come oggi, anche essere volitivo. Nell'un caso e nell'altro sarebbe per l'uomo forse un "game over", insomma un ricominciare "dal principio", e cioè da molto ma molto lontano dal punto dalla sua storia fin qui raggiunto. (E non è questa comunque l'ipotesi peggiore).
Sta di fatto che in questi giorni sui giornali s'è potuto scorgere segnalato più d'un collegamento fra il soggetto di questo film (una prevenzione di polizia mirata contro i reati, che cambia il futuro anche di persone che forse poi al dunque non li avrebbero commessi) e la teoria della guerra preventiva recentemente enunciata dalla presidenza della maggiore potenza economica e militare che sembra oggi esserci su questo nostro sempre più precario pianeta. Peraltro proprio da essa più di qualunque altra reso (terra, acqua, cielo) ecologicamente inquinato; cosa che insiste protervamente a fare, rifiutando firma a trattati, nonostante le si stia internazionalmente da più parti tirando la giacca.
Mi rendo conto, rileggendo, d'aver appena finito di scrivere la più buia senza dubbio di queste finora quarantadue rubriche di molto vario tenore. Ma anche di non aver fatto, riga per riga, nulla di più che gelidamente descrivere.