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Categoria: Secolo postmoderno

Avevo già in più occasioni indicato come esista una wearcommunication: nel senso che un capo d'abbigliamento (fogge, colori, area coprente, particolari, ordinarietà/eccentricità), o anche solo il modo di portarlo, può - ed anzi suole - costituire messaggio lanciato, ed assumere quindi ruolo di medium: è uno di quei casi che infatti ricadono nel noto paradosso - poiché paradosso è e non assioma - di McLuhan «Il mezzo è il messaggio». Lo ricordo iniziando adesso qui un discorso diverso ma concettualmente del tutto contiguo: sospinto da un motivo che più avanti dirò, ho comprato un libro dedicato ai tatuaggi e costituentene anche repertorio. Perché il tatuaggio pure è latore di messaggi: non si sceglie impunemente, cioè, un pugnale o un cavalluccio marino come se fossero solo decorazioni semanticamente neutre e tra esse fungibili. Ciò che sulla pelle mi faccio indelebilmente imprimere "parla" per me; ha qualcosa da comunicare che riguarda la mia personalità e il mio carattere, le mie richieste alla vita e le aspirazioni del mio immaginario. Può essere delicato o fortemente esibizionista, ambiguo o dichiaratamente provocatorio, sentimentale o addirittura burocratico (ricordo d'aver visto una volta in un porto straniero, sopra un braccio ancora nonostante l'età muscoloso, tre cuori non omologhi per stile, più sbiadito dalla salsedine il superiore, con evidenza freschissimo l'ultimo in basso, rinchiudenti tre diversi nomi di donna che costituivano - e che altro se no? - archivio di tre momenti di una lunga vita).
Ho trovato di tutto in questo libro. Humour e tragedia, minaccia e invito, simbologia eloquente ed intriganti enigmi. Grafismi astratti e figure iperrealiste. Solo bluastrità o contrasti rossoneri o policromìe minuziose. Classici ottocentismi, eleganze liberty, acrobazie decò, zuccherosità disneyane e tanto macabro splatter. Florealità e sanguinolenze, carezzevoli gentilezze e sessualità smaccate. Decorazioni crudeli ed affilate a ridondanti punte di lama, ma anche di quelle evocanti dionisiache o verginali cinture. Donne ignude sia leziose che puttanesche oppure animali domestici o strani e tanti mostri alati in alternanza con fantasie robotiche. Teschi con fra i denti coltelli seghettati o bocci carnosissimi di fiore con al centro non pistilli ma una lingua arricciata. E, dietro, una cultura visual che mixa Brueghel, Andersen, Salgari, Dalì, Boccasile, Moebius, i manga giapponesi e persino Jacovitti. Datazioni figurative precisissime o abolizione totale dello spaziotempo. Emblemi universalmente esperantici ed altri il cui senso può esser chiaro solo a un lui/lei privatissimo. Si chiama, questo libro, «Segni di pelle», edizioni Xenia 1995, cinquecentocinquanta disegni tattoo di Jerry Magni coperti da copyright, prefazione psico-storico-tecnica e intervistante di una Cristiana Monti, sua evidente fan.
E adesso il perché di questo mio acquisto. C'è sempre un motivo scatenante se decidi un approccio a qualcosa che non t'aveva mai interessato prima pur avendone, e in questi anni sempre più di frequente, esempi su esempi sotto gli occhi e con dilagante trasversalità tipologica di estrazione sociale e di collocazione anagrafica. A parte il fatto che, da prerogativa solo maschile che era, è facilmente costatabile come oggi le donne si tatuino più degli uomini: via via che la moda scopre i loro corpi nascono insomma altri stimoli identificanti, intesi cioè a togliere anonimato ad alcune aree di essi. Reni, ombelichi e l'alto degli inguini oggi si incontrano non solo al mare o in occasioni social-mondane ma anche, d'estate, su ogni autobus. Perché non decorare allora anche questi oltre che le più abituali spalle, zone scapolari, braccia e polsi? Quando un'abitudine diventa lentamente progressiva finisce che guardi senza vedere: l'assuefazione normalizza. I tuoi occhi passano sopra un tatuaggio come passavano prima sopra una coppia d'orecchini: al massimo pensi «che graziosi» o «un po' eccessivi», o magari invece «non stan bene a lei» se non addirittura «che malogusto, va'».
L'approccio è stato lento, ma ora finalmente lo dico qual è stato il mio fin dall'inizio cennato "motivo scatenante". Bèh, è stato il solito; anche se di molto specifico tenore stavolta: quello, in fondo tutto professionale, di una insopprimibile curiosità interpretativa. In fuggevole transito, alcuni giorni fa, per una città del nostro antico Lombardoveneto, non indicherò quale, ho accostato una centrale edicola per prendere i giornali. Dentro c'era una ragazza mora di viso ovale dolcissimo e grandi occhiali da studentessa miope, indossante una di quelle comuni stagionali canottierine esigue dal cui scollo emergeva, sulla sinistra, l'apice appunto di un tatuaggio. Si distingueva trattarsi di petali un po' contorti e dunque di un fiore strano e incuriosente; ma un'altra evidenza, e questa sì del tutto insolita, si manifestò quando, nello sporgersi con naturalezza avanti per darmi il resto, la scollatura floscia esibì una visuale maggiore della parte tatuata: che di quel fiore, ecco, pur tanto convessamente esposto adesso, non si vedeva tuttavia, nonostante così espanso, ancora il centro. Deduzione, mentre mi allontanavo: che tale centro dunque coincideva precisamente con la parte centrale di quel seno e che esso doveva dunque essere tatuato per intero, area basale inclusa.
Ed ecco che a questo punto nasce il nostro problema di linguaggio, e in termini linguistici - poiché è di questo che ci occupiamo - più ancora che di costume esso va posto e risolto. Perché se ha, come del resto certamente ha, anche un'implicazione erotica, quest'ultima non è di certo nè esclusivamente fondante né esaustiva. Quale messaggio emette dunque quel tatuaggio e secondo quale grammatica è stato pensato e costruito? Poiché esso assume sì completezza solo in una condizione di nudità (che pubblicamente non può verificarsi, o lo potrebbe solo in un topless balneare) epperò questa completezza può essere intuita comunque: dato che anche il normale specifico abbigliamento di città è strutturato proprio per svelarne sufficiente parte, e questa parte funge da sapiente guida al resto.
Se voi vedete un papua o un maori in perizoma, sulle sue guance, e sull'intero suo torso davanti e dietro, e anche sulle sue braccia e gambe, potrete leggere tatuata l'intera storia ascendente della sua famiglia; ammesso beninteso possediate le risorse culturali di relativa decodifica. Così come leggereste elementi rituali nelle puntinature indelebili che circondano l'arco orbitale e rigano il dorso delle mani e dei piedi di una donna maghrebina, una religiosa indicazione di appartenenza nel dischetto rosso apposto fra i due sopraccigli d'una donna indostana, o indicazioni di minaccia ovvero di autorità o prestigio nelle policrome pitturazioni facciali d'un pellerossa o color gesso d'uno zulu, o meramente estetica decorazione nel rilievo di apposite cicatrici allineate o concentriche sul petto e sugli zigomi di una watussa. Ma cosa leggeremmo, cosa vuole le si legga l'occhialuta edicolante poco più che ventenne, tra la clavicola e il petto quand'è vestita e sull'intero seno sinistro quando l'abito è dismesso? Indovinare, supporre, intuire, dedurre, sapere, sono cinque scalini: fino a quale di essi riusciamo ad arrivare quando il supporto (e per noi ovviamente non lo può) non sia denudato?
Conosco, nella mia limitatezza, un solo precedente cult. L'arcangelo bisex di Asia Argento, peraltro oggetto di decine di fotoservizi su questa giovane attrice figlia d'arte. Esso emerge con il viso e le spalle appena sotto l'infosso ombelicale, spiega le sue ali immense verso i fianchi della sua portatrice quando questa è in slip e solo quando è fotografata priva anche di quello lo si scopre emergere proprio "da lì": da una nera boscaglia particolarmente folta e tuttavia non aggressiva. E lo si coglie, mediaticamente, nella sua interezza protettrice e anche assolutoria di valenze impudiche; senza che tuttavia sia sciolto il dubbio di una subliminale, invece, dissacrante protervia. Perché c'è chiaramente dietro, infatti, il genoma paterno di Dario Argento appunto, metà giustizialista e metà sadico, cultore permanente di dubbi interpretativi sottilissimi e maestro di equilibristici suspenses. «Sono e non sono» comunica praticamente sua figlia Asia « e ostento questa mia biforcata qualità». E' a questa stessa luce da leggere anche il tatuaggio mamillare che infiora corruscamente la giovane giornalaia da cui siamo partiti? Forse. Ma, propendo io, forse e anche senza forse no. Almeno nell'intenzione.
Ci scuserà questa giovane donna - ma è proprio per questo che la lascio non identificabile - se la immaginiamo per un momento mentre l'artista tatuatore, mani inguantate, occhiali telescopici e mascherina sulla bocca, tiene rialzato dal di sotto quel suo seno per meglio pungerlo, con il ronziòso ago inchiostrante, di lineari volute che ne circondino il culmine lasciandone intatto il segnalato perimetro apicale. Ecco nascere petali ghirigoranti simili a quelli che conosciamo emergenti dalla canottiera che le abbiamo visto indosso, e formarsi una corolla che è opulento fiore ma anche e soprattutto composizione astratta di suggestione optical. Fino a che punto ciò rappresenta risorsa di conferibile sensualità maggiore a quella parte e fino a che punto invece non gliene sottrae? Ed è davvero erotico, quel messaggio, solo perché è erotica quella parte a differenza, che so, di un òmero? Bèh, se posso dire la mia, un pochino a naso ma di più per appropriata ermeneusi, il vero effetto non consiste nella decorazione di quel cupoliforme supporto, come fosse il gonfio fittamente infiorato di una bella brocca di ceramica che non si fosse voluto far restar bianca pur se di suadente forma.
L'effetto è un altro, pensateci. Per una donna il tatuaggio è eloquente (oppure propositore di enigma) in sè, normalmente, o anche in relazione al voluto preciso sito di topografia corporea in cui si colloca; che può essere banale ma, in alternativa, anche audacissimo. Un tatuaggio può essere normalmente in vista (spalla, polso, caviglia...) o "riservato" al coniuge o all'amante se sottostante agli indumenti intimi. E poi ci sono quelli in collocazione, come dire, di bagnasciuga, che una normale mutandina qualche stagione fa ancora copriva ma che abitudini balnearmente in seguito invalse non nascondono più: col tanga per esempio la regione glutea, frequente sede di tatuaggìni, è divenuta open space. L'effetto del caso in osservazione è invece particolarissimo: primo, perché non si tratta di una semplice figura isolata ma dell'intera copertura di un'area, che per giunta esalta otticamente, come tondamente incorniciandolo o inghirlandandolo, un elemento centrale di diverso pigmento e di vistosità tridimensionale rimasto giocoforza nature; secondo, e tuttavia maggiore, perchè si tratta di un messaggio a due livelli. Uno - i petali che primieramente solo sporgono dall'indumento - è allusivo ed evocante, ed esso ha sì anche se non pare una valenza erotica forte. Proprio perché l'erotismo è soprattutto immaginazione, quando non promessa. L'altro è invece (attenzione) principalmente scenografico, quasi astratto. Perché si tratta non d'un solo bensì di due attributi corporei gemelli in unico sguardo inevitabilmente coinvolti in quanto costituenti coppia sorgente dallo stesso busto, uno interamente tatuato e l'altro no, che a nudo (integrale, o anche solo fino alla vita) creano un contrasto e un'asimmetria sostanzialmente estetici e quindi non appositamente validi soltanto in occasione intima, ma possono pure - e io direi soprattutto - costituire performance espositiva in sede artistica, capace di tentare galleristi e fotografi, di diventare alla fine album. Non è convincente, secondo la mia riflessione, che un tatuaggio come questo possa infatti essere solo frutto di moda o di egotismo. Né di compiaciuto esibizionismo presso un partner. E sono persuaso che se va al mare la giovane edicolante lo fa indossando un costume completo di reggiseno, se non addirittura un monopezzo di tipo "olimpionico". Chi sa, insomma, se quella ragazza non sia per caso una studentessa di belle arti fornita di grafica genialità che mentre renda se stessa soggetto/oggetto sperimentale si mantenga agli studi con un part-time in edicola...
Tattoo come messaggio: ne ho trovate, nel libro che ho citato prima, immagini applicate a corpi umani che sono più spettacolo e prodotto di design anche policromo che segnale simbolico o personalizzata icona come invece, semplicemente e in modo al confronto quasi povero, sono stati l'àncora di Braccio di Ferro, la farfalla di Moana Pozzi, gli emblemi militari del principe Filippo di Edimburgo. Il marchio sulla pelle nasce infame: nella storia dopo gli animali si sono marchiati gli schiavi, poi i ladri, poi le adultere, infine con un numero di matricola gli ebrei: adesso il "marchio" è un logo garante di qualità e l'inchiostro impresso sottopelle un gadget voluttuario come un nom de plume o l'agitar d'una bandierina o un personalizzante "tic" o un distintivo d'occhiello. Il che conduce, consentitemi, alla previsione logica di dedicare la prossima rubrica al contiguo e non poi tanto grammaticalmente differenziato, e anzi proprio conseguente, linguaggio del piercing ed alla messaggistica - stavolta più di gruppo che individuale - da esso, e talvolta in modo eclatante quando non esagerato, servita.