Concludo questa settimana un discorso che di rubriche, con la presente, ne ha traversate in consecuzione tre. Descrivendo adesso qui anzitutto una situazione - e una polemica proprio in questi giorni avente un forte momento di vivacità nell'estremo Nordest italiano - che mi pare molto significativa in generale all'interno delle tematiche che ci premono, cioè quelle della comunicazione; nonchè per, ovviamente, rintracciare pure su questo versante, se ci riusciamo, qualche elemento di postmodernità.
E' da tempo che il chiodo della lingua friulana viene battuto a livello locale di Comuni, Province e Regione e dacchè un provvedimento legislativo l'ha tolta dalla "palude" dei dialetti per darle rango migliore e riconoscerla marchio e latrice di una precisissima identità culturale non latina né longobarda, non veneta, non slava, non germanica, bensì di provenienza ancora retrostante ossia dall'antichissimo mondo celtico per tanti secoli padrone dell'Europa preromana, ne è logicamente scaturita un'esigenza dai connotati particolarmente e visibilmente molto pressanti. Farla cioè diventare anche comune lingua scritta, formalizzarne e diffonderne una grammatica. Pianificarle insomma una dignità pari a quella nazionale. E anche, dunque, introdurla a scuola fra le materie d'insegnamento assieme alle altre due minoritarie (sloveno e tedesco). E' stato distribuito un modulo alle famiglie perché indicassero la scelta per i loro figli iscritti alle elementari e alle medie pubbliche. Primo esito: 80%: Ma la formulazione non rendeva chiarissima la facoltatività e non obbligatorietà dell'adesione a questo insegnamento; quindi impugnativa in sede parlamentare e invalidità dei risultati proclamata dal ministero. Che ha fatto ristampare altri più appropriati moduli e ripartire ex novo l'operazione; con esiti conclusivi che non sono noti ancora. Adesso però si sono manifestate anche opposizioni, con raccolte di firme e prese di posizione, da parte di insegnanti e strutture sindacali. Chi insegnerà questa lingua friulana, con quale preparazione e quali criteri di selezione? E da dove potranno venire i fondi per stipendiare questo nuovo esercito docente? E per stampare i necessari libri? E poi, come ristrutturare programmi e orari per ricavare spazio a questa nuova materia (con presumibile danno alla lingua italiana stessa)? Problemi non da niente, come si capisce.
Eppure a livello politico maggioritario, in cui è lì preponderante, questo è noto, l'area leghista, la reazione è stata pesantissima, bollando come nemici della madrelingua e traditori della patria anche coloro le cui riserve erano semplicemente tecniche. Il che ha consigliato lo stesso quotidiano di Udine, che pure al friulanesimo aveva sempre concesso molto spago, a saggiamente ammonire di non cedere all'intolleranza e di considerare legittimi pure i dissensi, e ad ospitare interventi di intellettuali, fra cui proprio illustri scrittori friulani (fa piacere citare Carlo Sgorlon) che si dicono riluttanti a togliere spontaneità all'idioma dei padri e dei nonni, pur da loro stessi praticato, per imprigionarlo in regole scritte forzanti in un'artificiale koiné la varietà di modi in cui viene parlato valle per valle, paese per paese. Hanno ragione, naturalmente, ma passerà, penso, lo stesso la linea che io mi spingo (insegno anche nell'Università giuliana, discuto molto con i miei studenti, e tocco dunque con mano le realtà da cui ricavo opinione) a definire sciovinista. Perché ritengo finirà così? Perché - e chiudo in questo modo dopo tre rubriche il cerchio - mi sembra questa costituisca una dimostrazione perfetta del già da principio enunciato assunto wittgensteiniano: che la lingua è un utensile di società. E che se ne può dedurre, se così è, anche una valenza versus rimozione d'obiezioni e intralci a un predefinito percorso strategico. E che anzi ci si trovi davanti a un caso in cui la lingua è proprio rappresentazione di ideologia.
Cercherò di spiegarmi meglio. E lo faccio servendomi, per chiarezza, di una dichiarazione ufficiale messa nero su bianco da una delle personalità leader del friulanesimo non solo culturale ma anche politico: "E' LA LINGUA l'elemento fondante di questa Regione", aggiungendo che chiunque dovrà, piaccia o non piaccia, prenderne lucidamente atto. La minoranza giuliana ovviamente per prima. Si intravvede in trasparenza la prefigurazione di ogni successivo passaggio: il parlar "marilenghe" (ossia madrelingua: è appunto il nuovo nome localmente invalso per il friulano) in riunioni d'organi istituzionali elettivi prelude a un nuovo bilinguismo negli atti ufficiali e nelle sedi documentali. L'insegnamento scolastico dal canto suo conduce a un futuro obbligo di conoscenza per lo svolgimento di determinate funzioni o l'assunzione di determinati ruoli sul territorio. Più di un intervenuto nel dibattito fa previsione di meccanismi del genere, che sono poi elementi di emarginazione fatale dei cittadini e delle entità non friulane della Regione e dello spostamento dall'area giuliana a quella friulana, anche con eventuale intera o parziale correzione di capoluogo, del baricentro politico-amministrativo del territorio più in base a logiche numeriche che funzionali. Fra un anno la Slovenia entrerà nella UE e i confini di Schengen avanzeranno ad oriente sino a quelli croato e ungherese. Non è curioso che per una effettiva frontiera nazionale che cade ad est se ne alzi una linguistica dall'altro lato lungo l'Isonzo? Non è questa la sede per approfondire disegni politici, naturalmente, e qui dunque ce ne asterremo per trasparenti e controversi che siano. Limitandoci correttamente al fatto linguistico in sé e non come mezzo per altro.
Avessi dovuto riempire io quel modulo avrei pensato che questa marilenghe già si parla in casa ed è la lingua del cuore, della tradizione e degli affetti, quella "con cui si comunica fra di noi"; ma che per le esigenze "del comunicare con gli altri" sarebbe stato più saggiamente proficuo scegliere invece per un mio figlio l'insegnamento d'una delle altre due tutelate, tedesco o sloveno, parlate dai popoli con cui ho più vicino rapporto territoriale, con cui scambio economia e cultura, lavoro e costume. La mia marilenghe è invece il triestino, più cosmopolita e bastardo del friulano perché il mare mischia più della campagna e le onde non sono immobili come i monti. Ben gli sta quindi restare dialetto strecciato e non tentare neanche di chiamare anch'esso a raccolta scienziati di filo e glottologìa per darsi una precisa gabbia grammaticale in cui contraddittoriamente star chiuso. E' gratificante per me, se non parlo con un forestiero, dire "gò bevù un slùk" invece di "ho bevuto un sorso" e "cos'che me diòl i pìe" invece di "come mi dolgono i piedi", ed affidarmi alla forza evocativa di parole come "grèmbani" o "remitùr" per dire "rocce" e "confusione". Però non dico più "piròn" e "carèga" per dire "forchetta" e "sedia", come ricordo comunque con commosso piacere di radici lontane diceva invece mia nonna. Io oggi dico dialettalmente "forchèta" con una "t" e "sèdia" con una "e" molto larga: perché gli idiomi sono animali vivi, che nascono e mutano, vivono e muoiono, o si consumano o si coniugano con altri. E guai a stabilire per legge le loro regole, perché l'uso è più forte di tutto tant'è che noi non riusciamo più neanche a difendere il congiuntivo dagli assalti dei radiocronisti. (Come pur ci piacerebbe, anche se a Gadda, Cergoly e Camilleri abbiamo invece giustamente concesso uso pieno della loro capacità d'essere sapidissimi fabbri lessicali e sintattici). Che fredda e sciapa sarebbe infatti una lingua di marmo, che resistesse blindata alla possibilità di farsi ricreare. O rifiutasse di stringersi nelle anguste dimensioni di un display.
Navajos e Comanches fan bene, dopo essersi giustamente però impadroniti dell'inglese, a continuare a insegnare ai loro piccoli e possibilmente a spese del contribuente americano, con la loro antichissima e figurata lingua, anche tutto il resto di cui son stati espropriati con la forza. Ma non è certamente il caso della Carnia e del Cividalese, dov'è casomai agli extracomunitari che c'è oggi tendenza a non render facile la vita. Bèh, mentre sognamo gli Stati Uniti d'Europa e una società multietnica come unica via d'uscita da un impasse che altrimenti ci schiaccerà, e mentre ci affanniamo a imparare, per salvarci il futuro, non solo l'inglese ma anche l'arabo, l'ebraico e il russo e perfino rudimenti di cinese, e quando i comandi del nostro computer ci consentono di navigare nel suo schermo come in una piscina grande quanto il pianeta, non è un po' contraddittorio fenomeno un arroccamento nazional-linguistico microterritoriale di tipo rigido? Anche se svelato come accompagnante e supportante strategie di segno complessivo; alle quali è pur utile una sorta di localistico patriottismo che si aspetta, da una riforna costituzionale di tipo federalista, più di quanto essa in realtà possa consentirsi di dare: cioè, in sostanza, l'"ognun per sé" che sganci un dall'altro i vagoni del convoglio, ma soprattutto quelli con minori risorse da quelli più ricchi. S'era alla ricerca di elementi postmoderni e invece guardate un po' in quanta premodernità ci si può ancora imbattere.