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Categoria: Secolo postmoderno

 

Perché problema? Ma perché è problema ogni fatto che spalanchi grossi quesiti da risolvere. Corsi di laurea in Scienze della Comunicazione ci sono ormai in quasi tutte le Università italiane e sono ormai - non la si ritenga affermazione azzardata - a rischio inflattivo. Nel giro di sette/otto anni il numero degli Atenei nel nostro Paese si è esattamente raddoppiato e non c'è capoluogo di Provincia che non si senta declassato se non se ne provvede di uno anch'esso, con larghissima manica di beneplacito ministeriale. Ce n'è di statali e di privati e non è sempre detto, come del resto a livello d'istruzione media superiore, che quelli pubblici siano tutti qualitativamente primeggianti e quelli privati tutti di serie B o strutturalmente abborracciati. A livello di docenze è diventato così sempre più di necessità diffuso il fenomeno di dover completare i quadri aggiungendo a prof di carriera un gran numero di prof a contratto annuale per x anni rinnovabile. Ma è a livello di massa studentesca che nascono i problemi di cui mi voglio adesso occupare in queste righe. Essi non esistono laddove sia prescritto - ma i casi sono relativamente pochi - il "numero chiuso" di qualche diecina ed è dunque prevista una selezione preliminare con esame scritto e colloquio orale. Ne insorgono invece, e anche di ordine molto pesante, ovunque le iscrizioni sono libere.



Stiamo parlando di Scienze della Comunicazione, e dunque non mi addentro in questioni che possono riguardare altre Facoltà, ma mentre nel comparto scientifico le iscrizioni sono in calo (a Matematica, per dire, si iscrivono oramai soltanto quattro gatti e neanche questo certamente è un buon segno) quello è invece un corso di laurea che pare contenga il miele. Inserito nelle Facoltà di Scienze della Formazione - riqualificazione non solo nominalistica dell'ex Magistero - è il corso di laurea di gran lunga più affollato di tutti gli altri di detta Facoltà. La voglia di diventare "comunicatori" è infatti talmente dilagata nelle fasce giovanili da assumere connotati quasi patologici nel perseguire non tanto vocazioni precise quanto opportunità di lavoro in un molto vasto panorama di attività contigue anche se inficiate da precariato. E' il contagioso effetto congiunto del progresso telematico, dell'invasività pubblicitaria, dell'affermarsi del marketing come indispensabile motore d'impresa, dello spettacolo un po' alla volta sempre più inteso come intrattenimento, del propagarsi di strutture in precedenza inesistenti o impensabili come gli URP (Uffici per le Relazioni col Pubblico) o i call center, delle attività di volontariato assistenziale e promozionale che hanno oggi cospicuo retroterra di finanziamenti, dell'editoria minore commerciale e culturale a basso costo, dell'organizzazione di eventi d'ogni genere con ramificazioni di indotto, della proliferazione del medium-fumetto che non distingue più fra ragazzi e adulti, delle relazioni più sottilmente regolate istaurabili fra produttori, venditori e clienti, della stessa capillarità della comunicazione politica, dell'esplosione del fenomeno Web.

Solo una piccola frazione dei miei studenti è orientata verso forme di comunicazione di tipo elevato come l'editoria libraria, il cinema, il teatro, la radiofonìa, la musica agìta in prima persona o in gruppo, la grafica strutturante o creativa e in genere la comunicazione non verbale nella molteplice e differenziata varietà dei suoi vettori. La loro gran maggioranza (ho fatto anche quest'anno un meticoloso screening) si proietta invece, ma per lo più in modo generico e confuso, verso gli idòla conclamati e suggestivi del giornalismo, della persuasione promozionale, della comunicazione aziendale. Pronti a cogliere tuttavia egualmente la prima occasione diversa e pur non stabilizzante in cui il mercato del lavoro in fatto di technology & communication li facesse imbattere. Un pugno di essi soltanto ce la farà, a sfondare in quel che testardamente voleva di particolare per sé, e qualcuno di quella sessantina laureatasi con me negli ultimi anni, e con molti/molte dei/delle quali ho mantenuto anche post lauream rapporto basato su reciproca stima, ce l'ha già fatta o ce la sta facendo. Ma c'è una sproporzione enorme e sempre più larga fra studenti iscritti, percentuale che giunge alla laurea e laureati che poi si collocano in modo soddisfacente. A Trieste il primo e ormai lontano anno di mio insegnamento in quella sede il mio corso era stato seguìto da 4 studenti iscritti, il secondo da 32, poi è stato un annuo crescendo fino agli oltre 300 del periodo accademico attualmente in corso (con sempre stragrande maggioranza femminille), per cui non essendo più bastevole l'aula da 250 posti in cui tenevo lezione nell'ultimo paio d'anni m'è stata ora assegnata stabilmente l'aula magna, che di posti ne ha 350. Proverò adesso a spiegare come sia difficile insegnare in una situazione così e quanto minor frutto rispetto al passato ne possano ricavare gli studenti stessi.

Non si tratta solo di una questione quantitativa, anche se essa determina un primo grave inconveniente: che un docente, in queste condizioni, non può più alternare lezioni ed esercitazioni pratiche. Ditemi voi quali risorse psicofisiche e quanti giorni occorrerebbero infatti per correggere circa 350 elaborati alla settimana... E "semplificare" le esercitazioni (il nefando sistema di caselle da crociare, forse?) significa innestarvi elementi dannosissimi di schematizzazione e di fortuità e cioè proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere la valutabilità di risultati metodologicamente allenanti. E allora da qui la decisione da me dovuta prendere (a Palermo invece si potrebbe fare ancora, specie in sede di master) di rinunciare a ogni performance collettiva in materia di linguaggio su supporto cartaceo e quindi concreta, e il limitarsi p. es. a selezionare capacità orali di descrizione e decodificazione di immagini proiettate da porgere estemporaneamente sul momento anche all'ascolto critico, correzioni mie comprese, della totalità della platea non direttamente coinvolta. Potrei adottare anche altri sistemi se non fosse appunto di "comunicazione" la disciplina affidatami. Non basta infatti mai soltanto assegnare libri da leggere: è il rapporto diretto docente-discente che integra apprendimenti fruttuosi in quanto dialogicamente fondati. Quando i miei studenti erano, ottimalmente, solo alcune decine e non di più, alla fine del corso gli stessi esami potevano anche ridursi a una formalità puntualizzante (il nozionismo mnemonico è l'esatto contrario dell'istruzione metabolizzante) perché avevo finito per conoscerli tutti come le mie tasche e li avevo dunque già tutti pesati molto per bene.

Ma non è solo questo numerico il motivo per cui l'organizzazione universitaria sta venendo ora meno sempre più marcatamente, anche se non in tutte le sue sedi e non allo stesso modo in ciascuna, a suoi fondamentali compiti impartitivi (stiamo parlando sempre di Scienze della Comunicazione, beninteso) trasformandosi da affinato strumento di selezione professionalmente elitaria a macchina di collocamento di massa, e finendo così con lo svalutare gli stessi titoli da essa rilasciati (c'è un impegnato dibattito nazionale su ciò, che occupa sempre più anche la stampa e perviene a queste conclusioni). Non solo un docente deve governare una situazione di rapporti responsabilmente affidabili che proprio uno sbilancio numerico del genere gravemente menoma, ma - faccio sempre il mio caso, che del resto solo mio non è - deve anche fronteggiare un'altra distorsione proveniente da disorganizzazione strutturale invalsa. Che cioè, a seconda dell'indirizzo in questo tipo di laurea scelto dai singoli, la mia aula triestina è per esempio composta da frequentanti che non appartengono tutti allo stesso anno di corso. E questo comporta un grosso inconveniente di taratura, didattica e linguistica, delle lezioni stesse. Perché se bisogna contemporaneamente rivolgersi a studenti appena usciti dal liceo e a studenti più "vecchi" che di esami universitari ne hanno già sostenuti parecchi, scelte tematiche e loro modalità espositive, che dovrebbero essere accortamente differenziate con riferimento specifico ad età e relativa esperienza possedute, resteranno invece obbligate a un "tenore medio" contemporaneamente capace di farsi seguire dai primi e di non annoiare i secondi. Con conseguente maggiore sforzo dalla cattedra, che comunque non eviterà una riduzione qualitativa dei propri compiti, e un parallelo minor frutto in termini d'apprendimento, poiché non mirabile su platea omogenea e intanto ciò che essa dovrebbe essenzialmente acquisire sono proprio ed appunto modalità comunicative, ed aspiranti comunicatori sono i soggetti che si devono in questa sede formare.

Bene, ho spiegato, spero con sufficiente chiarezza, almeno un paio dei problemi su cui ho voluto centrare la rubrica di questa settimana. I miei laureati degli anni precedenti avevano seguito un corso in cui è stato consentito un certo miglior livello di profitto, ed hanno anche potuto bene usarlo. Ma ho forti dubbi che la classe presente e quelle successive - salvo un complesso di rimedi, innovazioni e retromarce - possano vedersi guadagnate le stesse condizioni. Questo avrebbe dovuto essere il mio ultimo anno di docenza, avendo raggiunto il massimo di rinnovi annuali legalmente consentiti per questa tipologìa di contratto, ma sono stato avvertito in modo formale dalla Facoltà triestina che, nei suoi margini di autonomia, l'Università può anche, in questa materia, agire regolandosi in difformità da specifica legge. E che pertanto, valutati anche i precedenti risultati di docenza e con approvazione del Consiglio di Facoltà e del Senato Accademico, e permanendo nei suoi ranghi strutturati lacune specialistiche in fatto di media tradizionali e di new media, potrò in definitiva continuare ad insegnare, con rinnovo annuale, per ulteriori dieci anni. Se lo vorrò, naturalmente, perché occorrerebbe davvero che qualcosa si modificasse in modo radicale anche nelle condizioni in cui tale insegnamento viene esercitato. Occorre sperare e occorre, insomma, anche battersi perché - ma a livello parlamentare e governativo - venga adottata una nuova riforma capace di spiantare i danni causati da quelle dei ministri Zecchino e Moratti al livello di preparazione dagli studenti raggiungibile e al prestigio stesso delle Università.