"Sanità" è parola che, dopo la derivazione etimologica da "sano" (e sappiamo cos'è), significa primariamente "tutela della salute e delle condizioni igieniche, mediche e sociali che servono a garantirla, a ripristinarla, a diffonderla". Così secondo il grande dizionario della lingua italiana ultimo uscito (Tullio De Mauro, 6 voll., 1999). Vogliamo vedere il confronto con un sufficientemente indicativo passo indietro temporale? Ecco qua quello di Marco Bognolo (4 voll., 1839): "stato in cui tutte le funzioni necessarie alla vita si eseguiscono regolarmente". La sostanziale variante di significato corrente dopo circa un secolo e mezzo appare pertanto - e questo è importante - esser quella che lo sposta dalla sfera individuale a quella pubblica. "Salute", invece, è parola significante, come la latina "salus" da cui proviene, "lo stato fisico e psichico in cui si trova un organismo" (De Mauro, 1999) e/o, molto meno anodinamente e con senso tuttora sopravvivente, "assicurazione o liberazione da ogni danno e pericolo; sinonimo: salvezza" (Bognolo, 1839). Storia in certo senso inversa di quella del vocabolo precedente, no?
In che modo interpretare dunque la variante introdotta dall'attuale governo italiano nella denominazione di un proprio organo esecutivo da "Ministero della Sanità", come s'era sempre chiamato, a "Ministero della Salute", come a tutti gli effetti lo sentiamo invece chiamare a partire da quest'estate? Direi che si tratta del passaggio da una dizione oggettiva di comparto a una che si voglia psicologicamente più rassicurante: infatti, in modo subliminale, il sostantivo "salute" quando è solo porta con sé (ci mancherebbe…) l'aggettivo "buona". Il vocabolo di conio giornalistico "malasanità" è assai ricorrente di questi tempi, ed è certo anche da qui che viene una pensata così buona a rilucidare immagine. "Salute" infatti è augurale: te lo senti dire pure quando sternutisci.
Controprova che non si tratti di un fatto a sé stante bensì di una vera e propria linea prescelta: un altro Ministero, quello finora chiamato "del Lavoro", ha di fatto cambiato nome contemporaneamente - se avete prestato attenzione - e si chiama adesso Ministero "del Welfare". Ma come, un nome inglese? Bèh, in inglese "welfare" vuol dire "benessere", "prosperità": vuoi mettere con quel che ahimè di faticoso evoca invece la parola "lavoro"? Il linguaggio della pubblicità è un grande maestro, in queste cose, e l'attuale è un governo per le sue stesse origini a sua volta maestro nell'usarlo. Anche col nome piacionamente cambiato secondo procedure di soap-lexicon, è sempre di sanità e di lavoro che questi due ministeri dovranno, ad ogni modo, lo stesso continuare ad occuparsi. Ma saper cullare l'orecchio collettivo è importante, perchè pian piano anche nella testa poi si entra, e con qualcosa che pare niente…
Da parte nostra per contro non bisognerebbe mai desistere da questo gioco di riflettori sulle parole: esse non sono sempre pietre come asseriva Carlo Levi; c'è chi le usa spessissimo trasformate in plastilina.
E c'è anche quando attraversano l'etere come fossero non solo invisibili ma anche insonore. Le lingue servono sì per comunicare ma ci sono messaggi che nessuno, per drammatici che siano, raccoglie. Eccone uno: quest'anno la temperatura degli oceani si è alzata di un grado. C'è bisogno di aggiungere qualcosa? Forse sì, che si squaglierà un po' di ghiaccio polare in più; con effetti pericolosi: forse allora è cosa che meriterebbe un titolo no a una colonna ma delle stesse dimensioni che si dànno, che so, a Bush-Binladen o a Sharon-Arafat. Ma a noi con evidenza non sembra (ancora) importante, o tanto urgente da strillarcelo nelle orecchie, che nell'Australia meridionale si va diffondendo il non far uscire di casa i bambini nelle ore meridiane a meno che non abbiano neanche un centimetro di pelle scoperta e occhiali scuri; o che in Patagonia la lana cade da sola giù, spelandone la cute, dalle schiene delle pecore. Il buco nello strato atmosferico dell' ozono lo produce la grande industria dell'emisfero settentrionale ma è laggiù così lontano che si manifesta. (Gli Oceani riscaldati e cresciuti di volume però si alzeranno dappertutto, e dappertutto ci sono città costiere: altro che Twin Towers!). Fatto è che noi stiamo con deliberata disattenzione preparando ai nostri nipoti un mondo nel quale vivere sarà assai difficile, se non addirittura crudele. E stiamo attentissimi a non usare i media per dircelo, come si trattasse di porcherie indelicate. Meglio riabituarci alle guerre, meglio incrementare (copertine, calendari, tv, pubblicità) l'antica nudatio mimarum dei Fescennini, che però nell'antica Roma non duravano tutto l'anno. Sì, dài, distraiamoci.
Le lingue servono per comunicare, ok, ma noi siamo certi di star dedicando il massimo di circolazione a ciò che davvero merita d'essere comunicato, e non viceversa? Di fare davvero il miglior uso possibile, per noi e per gli altri, di tv, cell, @ e www? O di non usare anzi, in qualche caso, anche proprio la lingua con lo scopo preciso di chiuderci (relativamente) in pochi fra di noi sbarrando e barricando (metaforicamente) porte e finestre di casa? Quest'ultimo è un caso non esteso, anzi abbastanza localistico e circoscritto perché tutto il mondo, invece, sta praticamente accettando la colonizzazione da parte della lingua inglese; che oltretutto si presta strutturalmente più delle altre alle esigenze compressive e semplificanti della telematica.
Lingue che uniscono, lingue che dividono. L'inglese, già fatalmente sovrapposto a soccorrere l'enorme dispersione multilingue africana ed asiatica, sta diventando indispensabile a gran velocità anche nell'intera Europa; e intanto i display ci insegnano nuovi esperanti fatti di icone, stenogrammi e sigle mentre la radio assiste i non vedenti e la tv gli audiolesi. Eppure esistono qua e là ancora dei progetti linguistici che possono diventare palizzate territoriali o utensileria politica. Ma forse, visto che questa rubrica non è ormai più molto lontana dai suoi limiti di dimensione, sarà il caso che a tale specifico tema cui il filo del discorso ci ha condotti se ne dedichi un'altra apposita. La prossima, fra una settimana.