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Categoria: Secolo postmoderno

 

Mettiamola così: se succede un'imprevista sciagura mortale fra due treni della metropolitana di Roma, l'indomani tutti i quotidiani italiani dedicheranno ad essa l'apertura di prima e da due a quattro pagine interne, quelle iniziali dell'incarto. Non è solo una notizia: è LA NOTIZIA. E sarebbe così anche se domani acchiappassero nel Veneto Unabomber o naufragasse in inopinata burrasca quella barca chiamata «Ikarus» su cui fa week-end D'Alema. Eppure in questo caso e negli altri due ipotizzati si tratta di cose che sappiamo/sapremmo già, perché prima di comparire in edicola ce le ha/avrebbe già raccontate il TG della tarda serata precedente, proprio mentre i giornali di carta appena andavano, come si dice, «in macchina», e molti particolari in più ce li comunica/comunicherebbe poi di primissima successiva mattina il GR prima ancora che cambiassimo il pigiama col vestito per scendere a comprarli.

Eppure ci hanno insegnato fin dai primi passi di questa professione che per i suoi destinatari una notizia è tale solo la prima volta che vien data e ricevuta, ma già la seconda non più. E' cioè diventata un'altra cosa per esprimere la quale il termine, anche se ha la stessa radice, è diverso: nozione. Qualcosa, cioè, di già acquisito. E se uno avesse in precedenza visitato, per dire, il sito Web dell'ANSA ne avrebbe avuto conoscenza ancora più anticipata rispetto alle stesse testate audiovisive. Ora, essendo non l'unico ma certamente il primo requisito del giornalismo la tempestività (offrire insomma nel più breve tempo possibile e quindi col mezzo più veloce la ricezione d'un accaduto a coloro cui ciò interessa), vien su con evidenza come ci sia tutta una scala criteriale da rivedere nel campo dei media. Dall'epoca dei corrieri a cavallo e dei piccioni viaggiatori non si misura più a settimane il viaggio di una notizia perché arrivi da Londra a Palermo o viceversa, poi accorciato dalle strade ferrate, e neanche più a giorni od ore, adesso che quest'ultima generazione degli umani può ormai essere informata neanche più in un "arco di tempo" pur brevissimo ma in quello che chiamiamo "tempo reale", cioè istantaneo, dato che abbiamo, anche se non tutti, un computer sul tavolo e un telefono cellulare nel taschino.

Quali deduzioni allora ricavarne? Almeno due, immediate. La prima è che i giornali non ci dànno più notizie ma dell'altro. La seconda, ma questa è solo una conferma imprescindibile, che il canale mediatico previlegiatamente prioritario è quello telematico. Guardiamo loro dentro una alla volta.

La prima. Stabilito che i titoloni dei giornali piovono ormai sul bagnato e sovrastanno ad articoli e foto semplicemente, anche se con maggiore ampiezza, illustrativi, in che consiste invece "l'altro" per cui vale pena di comprarli allo scopo di apprendere? Intanto la parte commentaria su questi "fatti del giorno" (articoli di fondo, dichiarazioni, interviste non lampo ma più meditate, contrapposizione di opinioni) e poi, ma non secondariamente, tutti quegli altri materiali informativi su altri temi che, pur eventualmente per fasce di pubblico importanti, sono stati trascurati dagli audiovisivi, non hanno l'onore della prima pagina e stanno più in là sottodimensionati o appena accennati quando non nascosti. Fra le decine di tesi di laurea in comunicazione che ho ogni anno per le mani come relatore me ne trovo stavolta una dedicata appunto - con accurata ricerca di esemplificazioni - alle distorsioni gerarchiche, emarginazioni informative, negligenze ed omissioni che caratterizzano la generalità della stampa. Cosa ne sappiamo infatti tramite suo, mentre i governi occidentali tengono la testa voltata dall'altra parte (come se esistessero solo Iraq ed Afghanistan epperò anche questi non sotto tutte le sfaccettature del prisma che in realtà ci coinvolge) di quanto del tragico cui dovremmo ritenerci tutt'altro che estranei accade per esempio nel Centro Africa - più attuale oggi il Darfur, grande due volte l'Italia ma ignorato - dove i morti per strage genocida ammontano ormai a cifre con sei zeri?

E quale giornale richiama con prepotenza la nostra attenzione sui crescenti inquinamenti atmosferici bisognosi di interventi urgenti o su quel così poco controllato àmbito della ricerca scientifica in campo biologico che ci avvìa verso sconvolgenti aspetti di cyberumanità? Se ne trova traccia solo in qualche supplemento scientifico di scarsa lettura. A fronte, sempre per esempio, dell'ubriacatura vigente su estetica corporea e fitness esistono pure assodate proiezioni verso la darwinianamente progressiva retrazione del nostro mento verso il collo proveniente dalla sempre minore attività mandibolare causata dalla più morbida masticazione dei cibi in scatola o surgelati o liofilizzati e dalle più tenere merendine industriali che si dànno ora ai bambini. Diventeremo così più brutti, ma chi ha il coraggio di mettersi contro il business alimentare o di far campagne perché si costruiscano solo automezzi elettrici e la si finisca col petrolio killer? Più facile prendersela con i fumatori, no? In prima pagina vanno con pedissequa ed emotiva facilità solo gli argomenti che sanno di romanzo: se c'è una coppia che commoventemente non riesce ad adottare la bimbetta bielorussa, allora sì e anche per giorni. Ed è appunto la gerarchia dei problemi quella che ne esce stravolta.

La seconda. Se sono i siti di rete quelli che, cliccati, ci dànno le notizie per primi mentre radio, tv e stampa arrivano dopo, cosa aspettiamo per smettere di sciupare tutta quella carta, autrice anch'essa, per la materia prima (alberi), di un danno ecologico ancora certamente più grave di quelli che arreca il progressivo incremento di movimentazione dell'elettromagnetismo atmosferico? Più smilzi giornali cartacei e invece più libri sarebbe dunque buona ricetta, data l'obbligata tardività cui sono state obbligate le testate stampate rispetto agli altri media che via via sono sopravvenuti a scacciarle dal trono, e considerando come siano comunque al giorno d'oggi bassissimi gli indici di lettura, e non più certo per ragioni d'analfabetismo. Non credo che i giornali moriranno (proprio no) anche quando la telelettura in video li avrà definitivamente sconfitti consentendoci di scaricare sulla nostra stampante di casa o ufficio solo quelle poche paginette per ciascuno di noi interessanti. Ma saranno davvero e definitivamente diventati «altro» da quel che erano a lungo stati fin quando eran solo loro i nostri primi fornitori di notizie fresche e noi attendevamo con curiosità od ansia la loro quotidiana uscita, magari con gli strilloni.

Adesso è il Web che attende di assorbirli tutti, questi media con cui hanno appuntamento orario le nostre orecchie più o meno distratte, i nostri occhi beventi, il nostro cervello traducente segni alfabetici nell'automatismo di decodificata lettura. Dal Web, dove quest'operazione è già iniziata ma che certamente elaborerà per essa nuovi modi e nuove caratteristiche, non saranno più loro a cercarci ma saremo noi a cercare loro, secondo orari nostri e nostri interessi. E quest'altra rivoluzione mediatica - insieme alla definitiva sostituzione del telefono fisso col minicellulare allacciato all'altro polso di ciascuno come per ora l'orologio - ci condizionerà in un modo che sarà inutile classificare come migliore o peggiore dell'attuale ma che sarà da questo completamente diverso. Non saremo né più felici né più infelici ma certamente più liberi nelle nostre scelte e nei tempi di esse, e anche indotti a diventare ed essere trattati come pubblico molto ma molto meno indifferenziato che ora. Perché la decisione su quel che vogliamo trovare nei media sarà in quel momento passata a noi. E quell'interattività che sarà allora esercitabile dovrebbe consentirci di pesare di più e non solo nei momenti elettorali, nei quali peraltro siamo così spesso indotti, da suggestioni esterne, a sbagliare. Paura di questa responsabilità demassificante?