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Categoria: Secolo postmoderno

 

Dodici giorni senza informazione (stampata e audiovisiva) a livello nazionale e locale costituiscono, anche se a scaglioni di due, l'extrema ratio sindacale di una categoria, quella dei giornalisti, ai quali la controparte editoriale nega aggiornamento alcuno ai contratti di lavoro pur da tempo scaduti. E per qualche testata («La Repubblica») questi giorni di sciopero sono già stati anche di più per reagire al taglio di pagine di notiziario e servizi allo scopo editoriale di recuperare in questo modo, e in misura eccessiva e stravolgente l'incarto complessivo, almeno parte dei fruttiferi spazi pubblicitari perduti per questa tamburata di assenze in edicola. Non è valso nulla - finora - a smuovere le proprietà dei giornali dalla loro arroccata posizione negante un elementare diritto costituzionale di ogni lavoratore; neppure gli interventi, con severo ed auspicante appello di entrambi, delle due prime autorità dello Stato, il presidente della Repubblica e quello del Senato. Quindi i giornalisti insisteranno, e per questo fiorire di buchi neri i cittadini rimarranno tagliati fuori dalla piena nozione del corso di eventi importanti nel frattempo svolgentisi con succedersi di contenuti e di conseguenze. Come (solo due esempi) la guerra e i compromessi sulla legge finanziaria che regolerà per un anno economia, fisco, produttività e redditi in questo Paese, e momento cruciale del controverso dibattito sulla creazione di un unico partito fra gli ex comunisti oggi chiamati diessini, quei cattolici moderati che hanno per logo una margherita, e quant'altri volessero assieme a questi confluire od ibridarsi. Ma come dare di ciò colpa ai professionisti dell'informazione e non invece ai loro datori di lavoro?

Chi è sotto scopa e gioca in difesa sono i giornalisti. Sono loro sottoposti a deprivazione d'una loro professionale autonomia di ruolo e di giudizio; è sulla loro quotidiana attività che cade una pioggia di «questo sì» e di «questo no»; è a loro che si chiede di provvedere a una gerarchia di notizie che ponga in testa una serie di futilità, amplifichi il rendersi teatrino della politica ed emargini o addirittura oscuri tematiche di altissimo valore sociale, bioetico, ecologico, che riguardano la nostra vita, la nostra pelle, il nostro futuro ben più da vicino che non le dispettose zuffe parlamentari fra Bibì e Bibò. E' ai giornalisti che si punta contro l'arma nuova della precarietà d'impiego, dell'assunzione condizionata, del contenimento delle retribuzioni. Il contratto nazionale di lavoro non riguarda infatti che di sguincio le grandi firme (commentatori, inviati, specialisti di ramo), ma in toto e soprattutto la massa dei redattori di desk. Posto che quelli godono tutti di contratti ad personam della maggioranza dei quali neanche si conosce la cifra, mentre questa abbisogna vitalmente di meccanismi di tutela che riguardano fra l'altro l'addensarsi di lavoro in prolungamento d'orario, in area festiva e notturna. Ma anche d'essere normativamente difesa dall'accentuarsi di un turn over ravvicinato (i postulanti son tanti e le sostituzioni dunque facili) che renda irraggiungibile ai più un certo livello di scatti d'anzianità tabellare.

Questi dodici giorni di astensione informativa sono dunque un po' un messaggio di lotta e un po' un messaggio di S.O.S. La lotta resterà compatta fin che si tratta di tutelare, giustamente, il livello nazionale delle buste-paga, si sfalderà quando a ciò risulteranno aggiunte le tematiche che investono l'indipendenza professionale, dei quali troppi se ne fottono o la considerano un optional voluttuario. E già c'è sul tappeto un "caso" su cui i pareri sono discordi: fin dove i giornalisti possono violare privacy e quali sono gli àmbiti di società l'appartenere ai quali darebbe, ingiustamente, più diritto a privacy degli altri? Mi riferisco all'inchiesta, ritenuta abusiva, di quanti fra i rappresentanti del popolo detenenti seggio a Montecitorio - uno su quattro, dice il campione - assumono droghe (chi solo marijuana o hascish, chi invece cocaina). E al divieto censorio abbattutosi su «Italia Uno» perché non andasse in onda il filmato con le risultanze, pur mantenenti anche in questa sede anonima l'identità dei soggetti, di un rilevatore di DNA celato nel tampone di una finta addetta al trucco che detergeva sudore agli onorevoli intervistati davanti alla telecamera. Divieto del tutto inefficace ed anche ridicolo dopo che questo stesso materiale, prodotto per iniziativa del programma intitolato «Le Jene», era stato praticamente prediffuso e tutti i quotidiani (aspettiamo ora i magazines) ne avevano già pubblicato, sotto titolazzi enormi, intere paginate.

In un Paese dove, come sta venendo fuori, viene spiato e intercettato non solo il più esposto ma anche il più comune dei cittadini, non si capisce perché i membri del Parlamento, che guadagnano (tutti e i più senza meritarselo, pure il più fesso di essi che pur sentenzia su tutto, e la tv ci dà quotidianamente testimonianza di quanti ahimè ce ne siano) cinque volte di più di un ricercatore universitario non precario ma in organico, debbano godere di previlegi tabù riguardanti la propria valenza di status ed i propri comportamenti. A me non va di considerare reato lo spinello, ovviamente - Marco Pannella è uno che in pubblico l'ha fumato apposta - ma neanche che chi indaga sulle percentuali di questo fenomeno e le espone venga censurato. E neppure la candid camera è da considerare un reato in sé ma solo quando venga usata in particolari circostanze di spionaggio, scurrilità o ludibrio. E già esponenti politici anche di primo piano, Casini, p. es., sostengono che tutti i parlamentari dovrebbero spontaneamente e pulitamente sottoporsi alla prova di quel tampone lì (Alessandra Mussolini ha praticamente obbligato il riluttante conduttore Bruno Vespa, che parlamentare non è ma è altrettanto pubblico personaggio, a farlo sotto i riflettori di «Porta a Porta»).

Ed è per questo che lo sciopero dei giornalisti contiene anche un messaggio di S.O.S. Questa categoria va aiutata, dall'opinione pubblica e dalla parte migliore del mondo politico, anche a scrollarsi di dosso sudditanze, ad uscire dalla subalternità e, se ci riesce e v'è più di un modo, a tornare ad essere - che ce n'è proprio una grande e urgente necessità - quarto potere. Ma anche, attenzione, di dotarsi di uno spirito più nobile. Essere a posto con la propria coscienza permette pure l'affrontare rischi in totale omissione di paure.