C'è quando - e anche abbastanza spesso - a un docente vengono dei pensieri che da qualche parte possono essere ritenuti non del tutto compatibili con le consuetudini, come dire, accademiche. Legge per esempio dei libri che riguardano sì la materia che insegna, ma non la riguardano storicamente o saggisticamente (sono magari romanzi) bensì perché ambientazione, situazioni, personaggi, è proprio nell'àmbito di quella materia che ricadono, si costruiscono, agiscono. E mentre ne attraversa le pagine e dopo, quando giunto alla fine dell'ultimo capitolo le richiude togliendosi gli occhiali e un bilancio complessivo della lettura e delle relative acquisizioni gli si forma in mente, valuta anche la misura dell'eventuale impiego didattico di quanto in esso contenuto.
Ho speso poco fa, in forma femminile plurale, l'aggettivo "accademico". Ma cosa vuol dire accademico? Bèh, all'Università è accademico l'arco di tempo che va da settembre a giugno, così come è ancora "Magnifico" (con la maiuscola) quella sorta di general manager che ormai è diventato il suo Rettore. Ma se ci prendiamo in mano i migliori e più recenti dizionari dovremmo pur accettare che da questo termine un tempo sinonimo di alta prestigiosità ci provenga, in chiave invece attuale, un che di superato e di stantìo, un sentore d'artificiosità e retorica, un'equivalenza al pedantesco e al pedissequo (Palazzi-Folena); se non addirittura all' oziosamente astratto e al virtuosismo vacuo e pedestre (De Mauro). E allora di ciò mi faccio forte per annotare come qualche volta, nel prescrivere ai nostri studenti i testi contenenti regole e paradigmi, concatenazioni di eventi ed analisi concettuali dei quali poi controllare in sede d'esame l'apprendimento, potremmo anche turbare la tradizionalità di questi elenchi con l'inserzione di titoli capaci di - molto utilmente, beninteso - infiltrarla e spezzarla, se non addirittura (ma in nome sempre di civiltà e cultura) spregiudicatamente contraddirla.
Chi scrive insegna comunicazione - oggi appunto antìpodo di "accademia" - e prescrive dunque testi che ne tracciano la storia, ne illustrano l'articolazione in linguaggi, ne esplicano manualescamente i progressi tecnologici. Però ha sempre anche cura, e proprio perché stiamo vivendo in una società mutante, di descrivere non solo dei knowhow ma anche proprio, al contrario e spiegandone le conseguenze, i vari comenonsifà. La caratteristica dell'essere mutante è infatti quella di perseguire una certa tipologia di vantaggi ma è, insieme, anche quella di correre una certa qualità di pericoli. E allora c'è un libro che ho appena posato e su cui mi pare il caso di annotare brevemente qualcosa. Si chiama "Lire 29.600" (Feltrinelli, I Canguri)) ma era uscito in Francia col titolo "Francs 99", che sta diventando ora, alla sua seconda edizione, "Euro 13,89". L'autore, Frédéric Beigbeder, ha scritto altri racconti oltre a questo ma ha lavorato molto per la televisione e nel campo della pubblicità e dunque sa quel che dice, in materia. Così come sapeva quel che faceva, quando lo ha qualche anno fa licenziato in tronco, la Young & Rubicam che è notoriamente una delle più importanti agenzie pubblicitarie su scala internazionale.
Il racconto mischia sarcasticamente autobiografia ed iperbole, documentazione e fantasia, e gli stessi numerosi passaggi biecamente erotici sono più simili alle immagini di un cartone animato che a un realismo hard. E tuttavia lo spaccato che ne emerge del mondo della comunicazione pubblicitaria è tanto impressionantemente vero nella sua sostanza e nei particolari, da costituire anche eccellente accessorio bibliografico in un corso di studi che riguardi la sociologia mediatica. Per grottesca che sia la vicenda personale dei protagonisti (ma il grottesco è appartenuto anche a Boccaccio, a Rabelais e a Cervantes, così come lampeggia sintesi drammatica nei quadretti di Copi o di Altan) resta il fatto che davvero il patrimonio di Bill Gates equivale al prodotto interno lordo del Portogallo e il fatturato della General Motors a quello della Danimarca. E come sia tutt'altro che paradossale intravvedere già un trend presto suddividente i consumatori per marche (Nike, Nestlé, Unilever, Microsoft…) piuttosto che per paesi (Francia, Spagna, Germania…). Le multinazionali produttrici di merci, beni e servizi sono sempre più integrate con le strutture planetarie della finanza e le politiche dei governi; e fra i mass-media sia tradizionali che tecnologicamente nuovi è il medium pubblicitario - che con queste multinazionali simbioticamente si raccorda - ad aver raggiunto primato semiotico ed egemonia di suggestione ottenente obbedienza. Chi ha messo giù cambiando mestiere 'ste pagine non ha solo ferocemente graffiato, si è certo (e che male c'è?) pure divertito; non si tratta però di un diagnostico isolato.
C'è un altro libro, di qualche anno fa, che ne può costituire confermante riscontro (invece serioso) e che significativamente s'intitola "La comunicazione come decisivo esercizio del potere". L'ha scritto Robert Dielenschneider dopo esser stato, non per niente, trent'anni direttore generale della Hill & Knowlton cioè della maggiore agenzia americana di cosiddetta "consulenza d'immagine". Ma c'è anche un altro autore che può collocarsi proprio come interfaccia testimoniale di questo salace romanzino (definizione formale, poiché è invece una grande e planetaria tragedia sociale che balugina fra le sue righe) che sto usando come soggetto di rubrica questa settimana: francese anche lui, e anche probabilmente il più famoso pubblicitario di Francia. La sua radiografia del settore in più volumi è meno critica e più agiografica perché proprio lui può considerarsi il gran teorico della Fantasia al Potere, però ha tratti coloratissimi di stile che assonano con quelli del nostro Beigbeder. Sto parlando di Jacques Séguéla che ha scritto, è vero, "Non dite a mia madre che sono un pubblicitario: lei crede che faccia il pianista in un bordello" ma è stato anche, e per molti anni, l'ufficiale consulente d'immagine di Jacques Mitterrand quand'era presidente. E aggiungo pure "Pubblicità, serva e padrona" di Gian Luigi Falabrino, un altro esperto poiché a lungo stato dirigente della SIAE.
Conclusione: io lo so che anche leggendo, fra i testi che in materia di comunicazione per immagini ho consigliato quest'anno, i saggi di Giovanni Sartori, Raffaele Simone, Marc Augé, Pierre Bourdieu, Fabrizio Tonello, si arriva alle medesime conclusioni non ottimiste e molto preoccupate di "Lire 26.900" col tremendo quadro di quali cervelli, quali mani, e come, e perché, manipolano la massa dei cinque continenti in un mix di strategia del danaro, noncuranza morale, disprezzo del diritto e della cultura. Però se fosse uscito e l'avessi letto in tempo io a quest'elenco lo avrei aggiunto (e magari in sostituzione di qualche altro) perché avreste recepito identica analisi ma meno filosofata e con maggiori specifici esempi, stancandovi di meno e procurandovi qualche - salutare e forse preferibile - sogghigno in più. Si tratta del resto di un tipo di nozioni che costituiscono anche arma di difesa: se con questi strumenti si riesce a far bere a tutto il mondo una schifezza come la Cocacola, prodotto chimico dalla ricetta segreta, va tenuto presente che anche "Gli ariani sono una razza superiore" era quello che oggi si chiama normalmente un claim. E può succedere ancora.