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Categoria: Secolo postmoderno

 

Avverto il bisogno di occuparmi stavolta di qualcosa che per il momento non sento ancora dire da nessuno ma di cui ho egualmente motivo di ritenere ci stiamo un po' alla volta accorgendo in parecchi. Già tempo fa in una di queste rubriche avevo annotato come fosse sempre più faticoso e difficile provare a piegare in quattro il «Corriere della Sera», mentre con gli altri giornali che ritiriamo dall'edicola è al momento ancora possibile. E' certo che le attuali dimensioni di formato e di foliazione costituiscono per gli editori un vantaggio manifatturiero. Ma sta anche diventando certo che ciò non si traduce in altrettale vantaggio e conseguente comodità per gli acquirenti/lettori. Quando si raggiunge, in questo formato, una foliazione di 64/80 pagine si può, per mettereselo sottobraccio, piegarlo solo in due anche se così ci sporge troppo. Ma se cerchiamo di raddoppiare, come una volta e appunto per comodità, questa piega altro non facciamo che ridurlo ad un fagotto informe e gualcito. E poi, anche se a questo siamo abituati fin dal XIX secolo, gestire in lettura una superficie larga trentaquattro centimetri e mezzo e misurante cinquanta centimetri in altezza presenta pure, a seconda del luogo in cui lo facciamo, qualche fastidiosità.

C'è una strana incongruità fra l'invito di altri vettori mediatici, da un lato, a leggere in display con sempre meno pollici - e certo non è ottimale neanche questo - e, dall'altro, mantenere invece il formato broadsheet (appunto: lenzuolo) dei quotidiani, che, diciamo la verità, mica sempre leggiamo in poltrona o spianiamo sopra un tavolo. Ingestibile in autobus, difficoltoso quando si è pazientemente in piedi stretti in una coda, e non parliamo di quando, per esempio al bar, dobbiamo usare una mano sola o se all'aperto c'è un po' di brezza. Anche perché non è sempre facilissimo e in tutte le circostanze voltar pagina, cercare per via di tentativi a quale di esse comincia un determinato settore di notizie, trovare il seguito di un articolo inziato in prima. E questo perché le proprietà divenute ultraliscie del materiale cartaceo ora in uso e la compressione che il loro incrementato spessore subisce ad uscita di rotativa le fanno aderire una all'altra molto più di prima. E, a parte la frequente fatica di separarle, succede spesso che ne giri due in una volta, o tre, e non te ne accorgi. Insomma, ti intrighi.

Intanto gli altri prodotti editoriali si sono, in materia di formato, col tempo semplificati. Il libri hanno oramai due fasce pressocché standard, i periodici tendono sempre più numerosi a dimensionarsi in A4, e c'è perfino qualcuno, il mensile «GQ» p. es., e il femminile «Donna Moderna», che già rifornisce ogni volta le edicole dello stesso suo numero uscito con uguale contenuto e copertina in due formati diversi, uno dei quali è la metà esatta dell'altro, a parità di prezzo e a scelta del lettore (e adottare questa sperimentale soluzione non può che esser stato frutto di un preliminare sondaggio). C'è l'eccezione di «Il Manifesto», che ha addirittura quelche centimetro quadrato in più del broadsheet, ma è una civetteria che si può permettere perché di pagine ne ha solo 20 e sono egregiamente bastevoli a contenere tutto quel che serve. Avevano cominciato per primi gli editori di fumetti a passare, ormai da molto, a un formato più comodo ad essere sfogliato: gli "albi" erano originariamente, come i meno giovani ricordano, dei rettangoli allungati orizzontalmente, mentre hanno poi assunto il più normale formato libro, cioè di un rettangolo verticale.

Non tutti i quotidiani escono comunque in "formato lenzuolo". Tutti quelli del gruppo «Repubblica» e qualche altro (il «Giornale di Sicilia» p. es.) ne hanno adottato uno inferiore e più pratico, che ha trovato nel pubblico un gradimento molto evidente. Ma cosa osta a che tutte le strutture editoriali che producono giornali facciano lo stesso? Bèh, dovrebbero cambiare rotative oppure ridurre in esse il "passo" di rulli e cilindri e disposizione degli ugelli inchiostratori. Operazione in entrambi i casi di costo enorme - che comunque qualcuno può fare se proprio quella sua rotativa lì è venuta l'ora di sostituirla - mentre «Repubblica» e poi i suoi satelliti s'erano dotati fin dalla nascita di un modello diverso di macchina. Per operare una riduzione di formato adottandone, senza così grosso investimento, uno più maneggevole occorrerebbe che gli editori facessero un passo molto più lungo, scendendo cioè a una dimensione leggermente più corta e più stretta anche di quella che caratterizza «Repubblica». E questa sarebbe invece una scelta praticamente a costo zero, perché si tratterebbe di adottare quel formato così comune in altri paesi (l'Inghilterra fu la prima) che è chiamato tabloid, cioè "tavoletta". Dico costo zero perché il tabloid è l'esatta metà del broadsheet e dunque basterebbe dotare le rotative soltanto di un elemento di piegatrice in più e lo stesso spazio prima occupato da una pagina adesso lo verrebbe da due, senza che varii in nulla rispetto a prima la superficie inchiostrata e stampata sulla striscia cartacea proveniente dalla bobina.

Dico questo con cognizione di causa perché questa è esattamente l'iniziativa che adottammo a suo tempo a «L'Ora» sulla scìa del successo di questo formato presso il pubblico estero, e che ci andò bene. Consentendoci un giornale più compatto anche visivamente. La reticenza odierna degli editori è comprensibile solo se la si guarda sotto un altro profilo. Perché noi così, all'epoca, passammo da un giornale grande di 24 pagine a un giornale, ridimensionato nella base e nell'altezza, di 48 (anzi 44 per poter mantenere un elemento di rotativa libero da destinare al secondo colore, il rosso, per caratterizzare prima, ultima e le due pagine centrali che facevano "paginone") mentre trasformare p, es, il «Corsera» in un tabloid di 160 (centosessanta) pagine, oddìo, è qualcosa su cui rifletterci bene sopra. Fosse almeno, questo, un incentivo, diciamocela tutta, per indurre i giornali a uscire con meno pagine. Stanno diventando un po' troppe, dài, per un prodotto che non è libro ma effimero, deve durare solo dalla mattina alla sera, con destinazione finale cassonetto o cartoccio da involgere, e di cui solo qualche singola pagina merita la si strappi e si conservi. In epoca poi, come stiamo vivendo e sempre più vivremo, di televisione e Internet entrambe ormai (nell'attesa di assimilarsi anche fra di loro), più che concorrenti, di fatto eredi in tempestività di un medium una volta dominatore esclusivo.

Certo, diminuire le pagine vuol anche dire diminuire, oppure sproporzionare, lo spazio da destinare alla pubblicità (che è, non si scherza, introito cash). E' che gli editori no, ma noi lettori sì, anche quello lo consideriamo eccessivo. E comunque pure la macchina pubblicitaria troverà fatalmente altri sbocchi. E poi non andranno pian piano in Web anche le testate giornalistiche oggi cartacee (e in modo alternativo invece che solo aggiuntivo come oggi) mentre altre nasceranno direttamente lì? Tanto la carta resterà sempre egualmente; non è sopprimibile, solo che ce la stamperemo noi direttamente dal video per la parte che ci interessa invece di comprare in edicola tutto il pacco.

Futuribile reale? Ipotesi illusorie? Màh. La situazione però è questa, esiste e come, e io l'ho solo prospettata con completezza a tutte lettere dato che altri non lo fanno. Troppa carta fatta di cellulosa (alberi, ricordiamolo!) per un solo numero di giornale che magari di copie ne tira un milione. E 'sti giornali - io ne compro cinque ogni mattina, e sei la domenica, dato che per me sono pane lavorativo - son davvero troppo grandi e ingombranti, uffa. Ammettiamolo, che un rimedio serve.