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Categoria: Secolo postmoderno

Non so quanti si ricordino che «professore» viene da «professare», e che dunque anche un odierno prof, nel suo rapporto con gli studenti, non dovrebbe essere soltanto tramettitore di nozioni, il che può esser fatto pure in modi banali o indiretti, ma ricoprire altresì il ruolo di - mi si passi il termine - allenatore. La maieutica è trascorsa ahimè di moda, ma primario dovrebbe egualmente restare - in via sia propedeutica che accompagnatoria - rispetto all'impartire unicamente qualcosa di sic et simpliciter recipiendum dopo averlo religiosamente appuntato con la biro, proprio l'addestramento a pensare, e a far scaturire cose - anche altre e magari alternative - dall'interno di sé. Che è qualcosa da cui l'attualità che ci circonda si sforza invece di disabituarci.

L'equazione professore/professare - la quale in un certo senso reintroduce deontologìa e vocazione in una funzione docente che le ultime riforme italiane dell'Istruzione universitaria stanno cercando di riorganizzare come in una sorta di taylorismo della cultura, raggelante e cieco proprio in sé in quanto ad essa inapplicabile - ci viene riproposta da un recente libretto a due firme, Cortina Editore, che ho appena finito di leggere trascinandomi dietro fortissimo impulso a scriverne. Le due firme sono di quelle assai brillanti nella filosofia contemporanea, trattandosi di Jacques Derrida, purtroppo recentemente scomparso, e di Pier Aldo Rovatti, capofila con Vattimo di una serie di lucidissimi teoremi sul cosiddetto «pensiero debole». E anche il titolo è doppio: «L'Università SENZA condizione», «L'Università A condizione».

Il primo di questi due appartiene a Derrida, il quale ci pone di fronte - sintetizzo molto - alla necessità della riconquista, da parte delle Università, della loro completa libertà di elaborare e diffondere, affermare e pubblicare. In piena autonomia, s'intende, rispetto ai contesti sociali ed istituzionali che ad esse casomai, in quanto specifici luoghi di elaborazione, spetta di contribuire in modo determinante a implementare ed evolvere. E che ora invece le imprigionano, e anche assai malamente. Tornando insomma ad essere umanistiche davvero, e non più per una sola parte delle loro discipline (e comunque anche in questo caso solo retoricamente) come adesso. Ci sono state delle tappe, nella storia, che si possono allineare come momenti di pienezza d'una cultura davvero motrice e influenzante nei confronti della società nei suoi vari comparti e nei suoi vari livelli, nominate appunto come Umanesimo, Illuminismo, Diritti dell'Uomo (Carta dei...), a lato e infra le quali si possono invece incolonnare le antinomìe relative e inframezzanti (Inquisizione, Shoàh, Terrorismi... e vedo la Mafia in ogni sua accezione come uno di questi). Anche ai contesti presenti va insomma reagito smettendo di subirli, e rivendicando invece quella che si potrebbe chiamare l'Indipendenza del Sapere. E il suo diritto d'imporsi. Dandosi le proprie autonome e insindacabili regole interne. E proiettando all'esterno risultati ed indirizzi. Restituendo insomma un senso autentico al verbo «formare».

Il secondo, completante, titolo ha come referente Rovatti. Sa di quel che parla, è un cattedratico, direttore del Dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere a Trieste. Descrive ciò che vede, i problemi con cui combatte ogni giorno. E come intorno l'Università, tutte le Università italiane, gli diventano sempre più fantasmatiche come tali, e sempre più - invece - trasformate in ciò che non possono essere, cioè in aziende. Con regole aziendali portate al parossismo e quindi culturalmente snaturanti. Con un rapporto docenti/studenti che si vuole sempre più insensato e privo di sostanza. E alla fine per questi ultimi producente smarrimento, incongruenza di collimabilità fra inclinazioni personali e piani di studi enigmisticamente impostati ed imposti, con esiti di grande e demotivante tristezza, e anche pericolosità.

Rovatti descrive con una certa ironica disperazione come si svolge oggi un esame di laurea fra un candidato e la commissione di undici docenti che dovrebbe essere in grado di giudicarlo. Ma anche la frammentazione modulare delle materie e seguente pasticciato reincollamento di questa segmentata risulta, dato che quel che conta ormai non è la sua coerenza culturale bensì l'incastro di apparenze aritmetiche come risultato di chapliniana catena di montaggio. E la mostruosa criteriologia dei «crediti formativi», ossia le convenzionali unità di misura delle astrattamente presunte applicazioni a studio Per la quale si allegano (pare satira, ma è purtroppo solo freddo apparato dimostrativo) stralci di documenti delle commissioni ministeriali che ne hanno costruito il calcolo, con relazioni fatte di numeri paradossalmente, se non giocolierescamente, usati. Che potrebbero esser state inventate da classici dell'umorismo come P.G. Woodehouse o Jerome K. Jerome o scritte da qualche scienziato pazzo alla Kubrick. Sorrisi su una tragedia. Che i nostri giovani pagheranno carissima.

E c'è un altro elemento sul quale però non è ancora stato scritto un libro (lo aggiungo ora io per strettissima connessione strutturale) ma che costituisce bubbone il quale un giorno o l'altro esploderà. In tutte le Facoltà umanistiche sono venuti esponenzialmente crescendo, accanto agli ordinari docenti di carriera, i docenti cui è conferito incarico con contratti di diritto privato come sostituti titolari di cattedra. E in molte di esse sono oggi divenuti, questi prof contrattisti, anche più numerosi - e talvolta in modo schiacciante - dei cosiddetti accademicamente strutturati. Si richiede da questi come da quelli identico impegno, identica fatica, identico livello di capacità e competenze specifiche in relazione alla materia insegnata. Ma da tempo ogni anno, e in relazione appunto al crescente bisogno proprio numerico delle Università per coprire tutti gli insegnamenti, sono retribuiti in misura sempre più ridotta, fino ad essere rotolati a un quantum di poche decine di euro l'ora, da neanche tempestivamente pagare. I recenti "tagli" ministeriali hanno poi messo molte sedi in condizione o di ridurre il numero delle materie o di rendere addirittura simbolico il loro corrispettivo economico. Ho partecipato proprio di recente a un'assemblea di contrattisti (in una sola Facoltà ce n'è centinaia, si badi) che definire drammatica forse è poco e che è sfociata in un ulteriore abbastanza rabbiosamente determinata autoconvocazione.

Perché non si tratta solo di una questione di necessaria spesa pubblica e di legittima mercede individuale, ma proprio di un fatto di elementarissima dignità professionale. Anch'io sono un docente a contratto, fortunatamente però, come del resto parecchi altri, dipendente per i compensi dal Fondo Sociale Europeo e non dai bilanci di Ateneo, e non mi sento certo, nello specifico scientifico e nella capacità didattica, di valere mezz'unghia in meno di un ordinario di prima fascia, per la materia di competenza, e avendo diritti e doveri eguali ai suoi nei confronti sia dell'istituzione che degli studenti. Ne trovo del resto comprova nell'avermi fatto proprio uno come Rovatti l'onore d'essere mio co-relatore in una delle tesi di laurea più interessanti di cui sono stato relatore in questi ultimi anni. Dunque effettivamente una gerarchia di sostanza in questo campo non c'è. Ma i colleghi proprio anche per questo cominciano ad arrabbiarsi, ed è vicino il momento - già è stato apertamente ventilato - in cui si accorgeranno di poter paralizzare un anno accademico se decidessero la collettiva autosospensione dallo straordinario ed essenziale numero di cattedre loro affidate, ponendo così a chi di dovere lo scottante problema di chi, in Italia, insegna cosa a chi (molti di loro hanno più studenti della corrente media per corso) e in cambio di quale conquibus. C'era anche il rappresentante ufficiale degli studenti iscritti, in quella riunione, ed ha testimoniato gratitudine per la mediamente riscontrata maggiore attenzione ed assiduità verso gli iscritti da parte appunto dei docenti a contratto. Si tenga conto, con minore ingratitudine, anche di questo, da parte dei Senati Accademici e delle burocrazie ministeriali.

Un libro come questo di Derrida e Rovatti merita certamente considerazione e dibattito. Soprattutto all'interno degli Atenei, dove comunque non ci sono solo coloro che si adattano ma anche coloro che soffrono questo annichilente processo di mutazione proprio istituzionale (Claudio Magris, per citarne uno insigne, ha abbandonato l'insegnamento proprio per questo, e con clamorose motivazioni pubbliche). E sarà sempre un'apertura di dibattito tardiva dato che son passati dieci anni da quando un altro importante cattedratico come Raffaele Simone ha pubblicato da Laterza «L'Università dei tre tradimenti». Perché ha ragione Derrida: i ministri va-e-vieni possono dettare norme generali ma mai dovrebbero intervenire sui contenuti, i criteri, i metodi, gli indirizzi, l'articolazione interna, i quadri delle materie, con cui il dispensar saperi, il curare apprendimenti e il valutar risultati devono essere responsabilmente dalle Università autogestiti. La libertà (e quindi qualità) d'insegnamento non può, senza morire, restar descritta da codici alfanumerici e tabellata nomenclatura di materie degne di un romanzo di Ray Bradbury ed altrettanto prefiguranti quanto di peggio può colpire l'Università, e cioè una progressiva aridità intellettuale. Con prospettiva di macerie su cui spargere sale. Non è meglio discuterne e confrontare tesi, invece di voltare la testa dall'altra parte come questi problemi cosituissero davvero inesistente fisima?