Non credo di dire una cosa chissà che stravagante se mi lascio scappare esser anche la didattica una forma di comunicazione, e sull'essenza della comunicazione quindi basata. Ed essenza della comunicazione, non ci sarebbe neanche bisogno di evidenziarlo, è la bidirezionalità. Altrimenti sarebbe solo informazione, che appunto è monodirezionale e al massimo ha solo quell'effetto di ritorno che con pratico termine inglese denominiamo feedback,e può essere positivo o negativo. I due poli del rapporto sono, in didattica, il maestro e l'allievo (gli allievi, anzi talvolta moltissimi). E come si attua, questo rapporto, fra docenti e studenti? La sua normale articolazione consiste in lezioni, esercitazioni, ricevimento studenti, esami. E può manifestarsi, com'è ovvio, con diverse modalità. Tutte richiedenti da parte del docente - è oltretutto mia ormai lunga esperienza personale non in una sola Università e non in una sola Facoltà di esse - attenzione, impegno, continuità, e quindi fatica. Ma questo è normale in qualunque lavoro finalizzatamente retribuito. Anche perché, come qualsiasi attività intellettuale, non si esercita in campo unico ma ne comporta anche una collaterale: spesa in rapporti trasversali, produzione di opere del proprio ingegno, partecipazione ad àmbiti interdisciplinari, aggiornamento ed arricchimento attraverso studio del proprio sapere stesso. E, pertanto, altro tempo.

Le diverse modalità d'esercitare docenza, cui ho accennato, sono facilmente descrivibili e meritano d'essere sottoposte a comparazione. Non per quanto riguarda i contenuti, naturalmente, in quanto la libertà d'insegnamento è diritto sancito, ma semplicemente sotto il profilo metodologico, di cui il mio intenso rapporto con gli studenti di numerosi corsi di laurea fra i due capi d'Italia mi fornisce ormai - e mi continua a fornire, non dimenticando mai d'essere sempre anche un giornalista - vastità di campionario; unito a molte loro lamentele e talvolta rimostranze cui mi capita fin troppo spesso di dover dare purtroppo ragione. Perché essi avvertono di non aver sempre e con tutte le cattedre possibilità di chiarificante dialogo, e talvolta addirittura neanche d'essere essi stessi, come sarebbe giusto e necessario, l'oggetto primario d'attenzione da esse. Occorrerebbe sempre che chi svolge lezione acconsentisse a farsi interrompere da un dito alzato fra i banchi per un quesito dalle sue stesse parole fatto insorgere, e che lo induca anche estemporaneamente a un'integrazione o a un aggancio laterale capace di produrre maggiore comprensione su un passaggio; e senza che ciò possa essere considerato in qualche modo deviante da una predisposta scaletta d'appunti. E dandosi anche il caso che una lezione iniziata in un modo possa esser così quasi obbligatoriamente conclusa in un altro. Perché c'è sempre dietro a ciò un bisogno reale dei più volonterosi che siedono in aula. Sono abbastanza abituato ai crocchi che mi si formano intorno quando, finita la lezione, scendo di cattedra (o nei break in essa concessi quando è lunga più ore) per non avvertirlo.

Ma non è raro il caso di prof che da questo si dimostrino invece infastiditi come venisse loro rubato del tempo indebitamente, e appunto non considerassero proprio compito primario, e per questo coperto da retribuzione, l'aver cura scevra di lacune in direzione dei giovani loro affidati. La quale non può essere solo fatta di manualistico know-how, o di saperi in formule, ma comporta insieme una completezza proprio sotto l'aspetto formativo (non si chiama proprio ufficialmente «offerta formativa» l'elenco degli insegnamenti di ciascun Ateneo?). Suscita non solo insoddisfazione ma anche sensazione di carenza apprenditiva dai banchi quando per esempio la lezione consista soprattutto nella semplice proiezione su schermo di concisi slides in sequenza da imparare-e-basta. Ed è chiaro che la prescritta «frontalità» del rapporto non dovrebbe poter consistere solo in questo. Accompagnato magari (potrebbe sembrare inventato) da un discorsetto del genere, che non metto fra virgolette perché naturalmente non ne son stato testimone diretto, e che non è neanche da considerare poi eccezione: cari ragazzi, noi non siamo insegnanti di liceo, abbiamo i nostri congressi, dobbiamo scrivere i nostri libri e dunque non mandatemi neanche mail perché non avrei tempo per rispondervi.

Ci sono certo "giustificazioni" a ciò e non lo metto in dubbio perché io stesso ho altri impegni professionali oltre a quelli universitari d'aula e dunque lo so bene. Così come so anche che, nel vertiginosamente aumentato numero di studenti, sicuramente più del 50% di essi risiedono altrove o hanno un lavoro che li impedisce di frequentare o, in massiccia quota, stanno solo perseguendo il «pezzo di carta» con la minore assiduità possibile d'impegno. E quindi sono nello stato di dedicarmi in modo più penetrante soltanto all'altra e numericamente inferiore componente. E' siccome gli orari di ricevimento sono un mio (e non solo mio) obbligo contrattuale e la scarsità degli ambienti di cui le Facoltà soffrono non consente a tutti i docenti di disporre di uno studio sia pure in condominio con colleghi, ho dovuto prendere l'abitudine di essere a disposizione degli studenti, come dovuto oltre alle lezioni, due volte alla settimana in un caffè. Senza contare il folto traffico di e-mail, cui cerco sempre di rispondere in giornata, magari coricandomi più tardi, per sentirmi la coscienza a posto.

E poi ci sono le lauree e gli esami. Di lauree ne sto in questo momento seguendo da relatore sei, sempre ai due capi d'Italia, ed è un numero anno per anno costante ma non credo di essere sotto la media e conosco colleghi che ne hanno sulle spalle anche parecchie di più. Però sono gli esami il punctum dolens. Ho appena terminato una sessione da un centinaio di candidati divisi in due appelli, e la seconda tornata è durata quattro giorni dalle nove di mattina alle otto di sera, pranzo in cattedra con panini. Cos'è un esame, examen, se non la possibilità per il docente di accertare - non per controllo di ripetitività mnemonica o con domande-trabocchetto, il che sarebbe inservibile ai fini valutativi - quanto dell'acquisizione di saperi è stato effettivamente metabolizzato dai singoli candidati e quale capacità di usarne hanno rispettivamente acquisito in relazione ai processi mentali ed alle vocazioni di ciascuno quando professionalmente ne dovranno far uso? Sarebbe se no come per un medico esperire una diagnosi solo servendosi del termometro e chiedendo al paziente se ritiene di star bene.

Ed è per questo che, onde conferirgli attendibilità di valutazione individuale, esso non può che consistere in un téte-à-téte frontale fra interlocutori, e della variabile durata necessaria. Mentre sono in espansione, invece, tecniche quizzistiche capaci di esaurire cento candidati in due ore, magari affidati a un assistente dotato di sola e bastevole calcolatrice per avere in un batter d'occhio gelidi risultati elettronici; anche se esse sono con severità censurate dai più illustri psicopedagogisti in quanto abbastanza egoisticamente ciniche e menomanti la funzione cui dovrebbero servire. Ma esse cos'altro sono in realtà se non roba da «Settimana Enigmistica» o da roulette russa? Che genere mai di «comunicazione» possono istaurare, a fini di valido esaustivo e non fortuito giudizio, sistemi del genere? Io so che, alla fine di un colloquio esplorativo radiografante e fondato su dialogo (ma anche al docente abbisognano, proprio in quanto tale, capacità introspettive e non meccaniche) pure chi si porta via un voto basso o un invito a riprovarci in sessione successiva sa, ed ha capito perché, e ne conviene, che esso è comunque quello da lui effettivamente meritato. La didattica ottimale contiene sempre in sè anche quella preziosa qualità che si chiama maieutica.

C'è anche un'opportuna prova scritta, precedente o confluente nell'esame come prodotto del candidato, ma siccome non esiste mai il tema atto a misurare la qualità di tutti, è sempre stato mio principio lasciare per ciascuno discrezionale l'argomento, purché nell'àmbito della materia del corso. Primo, perché questa stessa scelta è anch'essa per il docente elemento di valutazione; secondo, perché effettuare una ricerca mirata e produrre documenti di sostegno senza indicazioni del prof lascia individuare qualità aggiuntive, o la loro mancanza, oltre a quelle afferenti solo ad esposizione linguistica e capacità argomentativa.

 

Lungi da me, per carità, l'intenzione di dettar regole là dove possono valere solo la coscienziosità e la deontologìa del singolo, ma l'esporre queste riflessioni basate su attenta e ormai più che decennalmente sperimentata osservazione, non mi pare soltanto onesto e doveroso ma anche, chissà, augurabilmente, fòmite di discussione, approfondimento, confronto. Anche la metodologìa didattica può ben essere oggetto seminariale. O no?