I neolatini vanno avanti a chiamarlo così: è cinéma in francese e cine in spagnolo. I tedeschi fanno kino, ma anch'essi, e magari più da vicino perché appunto la “c“ dolce quella lingua non l'aveva, ripetono il fonèma abbreviato del greco antico che significava «movimento»: dunque il nostro cinematografo = fissare delle unità (ema) in moto, "scrivere" in sequenza di immagini e non in segni alfabetici. Sono solo gli anglosassoni a nominare tuttora questa cosa per come effettivamente noi la percepiamo: movie pictures, figure in movimento, poi semplificate in movies. Il fatto che dopo sia arrivata la televisione, facendo sì che esse, invece d'essere proiettate in un ambiente, vengano trasmesse anche molto lontano e ricevute da chiunque possieda l'apparecchio a ciò adatto, non cambia nulla. La televisione ci dirama sia riprese elettroniche che filmati su pellicola; la loro grammatica è uguale.

Viene comunque sempre dal cinema e dunque da lontano quella iniziale spinta al parlare/scrivere per immagini invece che con medium alfanumerico, e io chiamo movies per distinguerle da script tutte le sempre più numerose tesine d'esame che i miei studenti appello dopo appello mi rimettono in CD, DVD, videocassette (o addirittura in nastro audio, ma quella è un'altra cosa ancora) invece che stampate su fogli A4 . Prassi che non solo accetto ma cerco anzi di incentivare, perché serve ad assuefarsi a un altro e sempre più rapido, tempestivo e dilagante modo d'esprimersi. Il linguaggio scritto ha ormai da tempo esaurito non il proprio necessario compito anche futuro, per carità, ma il proprio monopolio sì. E sono soprattutto i giovani ad aver preso possesso in pieno delle tecniche messaggistiche multimediali (computer, cellulari, webcam, pc-cell) anche per uso privato oltreché per lavoro. La settimana scorsa mi è stata anche proposta (e sottoposta, in un DVD da rifinire ma che ho già trovato d'eccellente impianto) una tesi di laurea interamente costruita in movies al computer; un film vero e proprio, che effettua confronti e sviluppa argomenti. Che presuppone anche una modalità del tutto inedita di condurre l'esame di laurea anche da parte dei commissari. Non si può? Vedremo. Ma mi sembra difficile trovare motivi di opposizione, una volta che l'Università stessa incentiva il FAD (formazione a distamza, con lezioni telematiche registrate) da parte dei docenti.

 

Che il bisogno espressivo cerchi e trovi continuamente, e da sempre, altre vie non è solo nel campo della comunicazione privata, ad ogni modo. E non solo passando da medium ad altro medium ma anche nell'àmbito stesso d'un medium solo. L'aveva fatto a suo tempo anche la letteratura. E' dalle «Mille e una notte» e dal «Decamerone» che una storia romanzesca si è disarticolata in racconti, e il racconto poi è nato e vissuto anche da solo e a sé stante. Esiste nel messaggio/storia anche un "tempo breve": possono coesistere le parecchie centinaia di pagine di «I miserabili» di Hugo e le dieci di «Il Signore della Nave» di Pirandello. E' la natura stessa del messaggio, la sua architettura, che determina e conchiude appunto un tempo assolutamente proprio, che non obbedisce a regole generali di durata. Trasferiamo questo concetto al cinema, per accertarne l'equivalenza, e l'esempio più vicino non può che essere un film appena rivisto in tv, «Undici settembre», consistente in undici episodi girati da undici registi diversi (alcuni di gran nerbo, come Ken Loach o Claude Lelouc). Che hanno come unico ma anche assai labile filo conduttore la tragedia delle Twin Towers, alla quale ognuna di queste singole storie si riferisce come data dell'evento ma avendo altro teatro ed altro diversificato contenuto umano che non quello, pur temporalmente contestuale e solo per tale contestualità presente fra le righe o sullo sfondo di ciascuno. Che potrebbero stare insomma benissimo anche ciascuno da solo.

 

Non tanto al sanguinoso abbattimento delle Twin Towers quanto ai suoi precedenti e alle sue conseguenze è invece dedicato il «Fahrenheit 9/11» di Michael Moore, che segue il processo inverso, e anche lui non per mostrare l'uso balistico di aeromobili a provocare quell'incendiario sconquasso, ma radunando e collegando reperti documentari di differente e distanziata nascita, pure rarissimi o sconosciuti, allo scopo di evidenziarne pre-contesti, contesto ed effetti (pur senza mai mostrare l'evento direttamente). Come gli abbracci fra i membri miliardari della famiglia Bush senior e di quella Bin Laden e dei re sauditi all'epoca delle forniture d'armi USA all'Iraq nella sua guerra contro l'Iran (impeachement? ma perché, se il business non è illegale e fa invece parte integrante e fondante della cultura americana; mica è qualcosa come fu per Nixon, sotterfugi, o si tentò per Clinton, vicenda privata). O quei drammatici 7 minuti 7 in cui a Bush jr., in visita a una scuola della Florida, dopo la sussurratagli comunicazione all'orecchio di quant'era appena accaduto non solo di cruento ma di demolitorio anche simbolicamente a New York e al Pentagono, passavano dietro ai muscoli della faccia i lenti sommovimenti dell'interno rimuginìo «E adesso cosa faccio?» prima di decidere finalmente di alzarsi in piedi. O le immagini tremende della guerra per reazione scatenata e definita illegale dall'ONU e dal Papa senza che nessun risultato positivo poi neppure agli USA ne provenisse, anzi. Perché quando si spreme un foruncolo con le mani sporche si crea poi una piaga devastante e irredimibile. Argomento specifico a parte, la tecnica del montaggio di frammenti - è questo il discorso che stavamo facendo - possiede un'eloquenza sua senza privare nessuno di essi della sua unicità. E' la tecnica che segue «Blob», un programma televisivo geniale il quale riesce a raccontare i contesti in cui la nostra giornaliera vita vien tenuta immersa, montando in un convulso di stacchi serie di spezzoni intercalanti analogìe, contrasti e tormentoni. E a dire la verità, seguendo Moore, in più d'un passaggio sembrava d'essere proprio in un numero di «Blob»

 

Ci siamo così senza parere avvicinati, e alla fine pervenuti, a un prodotto movie che ha caratteristiche sue peculiari: il cortometraggio. Un racconto, ma anche un bozzetto o un'astrazione figurativa, che non ha bisogno d'esser parte di niente, che può anche trovar ganci in un tessuto più complesso, ma vive d'autonoma vita propria, racchiuso e svolgentesi in un suo preciso, e breve, tempo interno. Un cortometraggio è tale indipendentemente dal suo supporto: che si tratti di pellicola cinematografica sviluppata da un negativo o di tecniche digitali, di una cassetta di nastro magnetico o di un disco leggibile da laser, la sua realtà non cambia, non cambia ciò che rappresenta. Chiamatelo short, chiamatelo clip, chiamatelo come volete, resta un prodotto di creazione artistica che vi espone qualcosa a mezzo d'un fluire di immagini. C'è stato un Festival a Palermo, appena concluso, di questi prodotti e ho fatto parte della sua giurìa. Lo ha organizzato, per il secondo anno consecutivo, la «CineOfficina» di Sergio Ruffino, giovane ed appassionato cinefilo e cineasta attorno a cui si raccoglie un folto gruppetto di giovani autori siciliani. E queste erano più o meno le cose che ho detto nel mio intervento il giorno dell'inaugurazione ai Cantieri Culturali della Zisa. Aggiungendone qualche altra, che riprenderò adesso qui di seguito.

 

Sullo schermo, una storia può durare 120 minuti ma ne può durare anche 12. Certo, allora è un'altra storia: le storie non sono condensabili nè dilatabili. Ognuna ha il suo tempo. E' la distribuzione, sono i circuiti delle sale che impongono una durata standard, come se i «Promessi sposi» o «Delitto sull'Orient Express» dovessero aver per norma lo stesso numero di pagine. Devono fornire uno spettacolo, comparato al prezzo del biglietto, che occupi mezzo pomeriggio o un dopocena. Se è un kolossal si ammettono fino a tre ore, ma se è più lungo ancora si spezza in due e si fa "parte prima" e "parte seconda", come «Kill Bill» di Tarantino, che pur fu girato tutto in una volta. Questo è un sistema, come si capisce, che nuoce al corto, lo espelle. Si possono scrivere dei racconti e raccoglierli in un libro d'unico autore, oppure di diversi, e farne allora un'antologia. Oppure un racconto singolo può trovar luogo sulle pagine di un giornale, o di un magazine. Ma di un corto, che ne facciamo? Quando, troncato il regime fascista, era rimasto libero lo spazio fra l'una e l'altra proiezione dei film nelle sale, esso fu riempito dal cosiddetto «documentario». Opere brevi che illustravano un evento, un'area geografica, una scoperta scientifica, un fatto di costume, la biografia d'un personaggio. Non proponevano certo una storia, non "si aggiungevano" al film, ma rappresentavano solo "intervallo" spezzante con qualcosa di diverso due sue consecutive rappresentazioni. E poi (pur rappresentando un obbligo prescritto, spesso erano pallosi e gli spettatori ne erano afflitti) sono stati rapidamente soppiantati dalla pubblicità e dai trailer, che tutti quei tempi lì ora se li mangiano loro.

 

Triste sorte, angusto teatro, dunque, per i corti. Proiettati in ristrettissimi circuiti di pochi amici, due o tre festival ogni anno... e poi? Ha forse spazi per loro la televisione, che pur deve riempire palinsesti di ventiquattr'ore e dovrebbe aver fame di prodotti d'intrattenimento di qualunque tipo? No, affatto: per lei la fiction sono film di magazzino o serials autoprodotti. Una rubrica settimanale loro dedicata ce l'ha solo Mediaset, credo in «Italia 1». E allora? I corti non hanno i costi di location e di scenografia e costumi che hanno i film di 90 o 120 minuti. Gli autori degli story-board sono spesso i registi stessi e molto spesso son sempre loro a mettersi la cinepresa in spalla e a dosare le luci e a dedicarsi al montaggio. Ed è molto raro l'avvalersi di attori professionisti. Dunque si tratta quasi sempre di prodotti dal costo assai limitato, nel quale l'incidenza maggiore finisce con l'essere quella della pellicola e del suo sviluppo e stampa (ma ora anche in questo campo viene affermandosi un po' alla volta il digitale). E allora?, ripeto.

 

Bèh, a me sembra molto ovvio, anche se conosco la sofferta preferenza dei loro autori per avere un pubblico che sia seduto in una sala (ed è, a differenza di quello dei lungometraggi, ancora, o di nuovo, un pubblico capace di applaudire), che c'è una sola strada destinata a farsi da questi prodotti percorrere. Una strada che può anche divenire una vera e propria autostrada a più corsìe: l'online. E' nel Web, spazio illimitato per un illimitato numero di siti, che un prodotto audiovisivo come il corto può trovare tutta l'accoglienza e il punto di ripartenza che gli occorre. Ti piazzi e ci resti, a disposizione di chiunque ti voglia cercare e sappia (non ci vuole niente) trovarti. Senza appuntamenti, e on demand in qualsivoglia momento. Ci può essere lì sia una "casa del corto" che un sito per ogni singolo autore il quale intenda esporre le sue opere. E anche un luogo per discuterle a più voci. Io l'ho lanciata, in quell'occasione e in quella sede, una proposta operativa. Non dovrebb'essere molto difficile farla attecchire.

 

Comunque, sia fatto ancora o no di fotogrammi di celluloide, consista in storie raccontate con respiro d'arte o in tesine universitarie da far vedere al professore, anche se è un tessuto di bytes che lo componga e un dischetto con miliardi di microcellette che lo accolga, continuiamo pure a chiamarlo cinema. Anche per la scrittura una volta c'era la penna d'oca e ora ben altro. I Lumière giravano una manovella innestata su una scatola di legno, e adesso stiamo per poter dare comandi vocali, tenendo le mani in tasca, alle macchinette che ci renderanno, al nostro "via", di colpo spettatori o attori di qualcosa che ci proverrà dall'etere o all'etere invierà. Ma continuiamo lo stesso, per piacere, a chiamarlo cinema.